Vivian Maier e il cinema

Vivian Maier, un manuale perfetto per rubare l’intimità con il cinema.

Il cinema e i filmati sono basilari per studiare Vivian Maier. Aiutano a far capire dove il suo occhio cadeva, come sceglieva le persone da fotografare, come catturava le sua prede fotografiche lo si vede bene nei suoi film. Nella fotografia di strada riusciva sempre ad entrare in contatto con uomini, donne, anche bambini. Con loro si stabiliva una sorta di intimità immediata e sceglieva un istante favorevole per quel che voleva dire e voleva mostrare.  In questo video ci sono le testimonianze di due sue compagne di scuola quando frequentava la elementari in Francia e il racconto di uno studioso dell’Association Vivian Maier et le Champsaur. Tutte informazioni che son state fondamentali per costruire il mio spettacolo “Gli occhi di Vivian Maier, i’m a camera” che porto per i palcoscenici europei e anche nelle case private di cui presento una piccola scena il Film Center. Lo spettacolo l’ho presentato nel Cinema di Saint Julien en Champsaur che era frequentato da Vivian Maier durante i suoi soggiorni francesi.

Vivian Maier e il cinema. E non ve lo aspetterete ma andiamo in Francia. Nella zona della Hautes Alpes, Champsaur. Dopo Briançon, c’è Gap. Sulle montagne di fronte.

Ho scritto uno spettacolo su Vivian Maier che abbiamo presentato in Italia, Francia e Svizzera. Allestito due mostre e scritto un libro sulla grande fotografa. Insieme a Caterina Cavallari continuiamo a studiare la sua opera cercando di darle dignità come fotografa e come donna.

Siamo a Saint Julien en Champsaur. Quella è la zona della famiglia di Vivian Maier. I Jaussaud.  Ci siamo stati parecchie volte per le ricerche su di lei. Son bellissime zone. E piccoli paesini semplici ma ricchi, in particolare di persone splendide e accoglienti. Vivian Maier ci è vissuta in due momenti della sua vita. Durante il periodo della scuola d’obbligo, quando ci venne dall’America con sua madre e poi agli inizi degli anni cinquanta, poco più che ventenne e già con una voglia di fotoografie di cui vi parlerò, Curiosa e assetata di notizie e di cultura. Nella piazza di Saint Julien en Champsaur ho conosciuto  due compagne di scuola dei tempi di Vivian. Quindi è realmente esistita, smentendo tutti i dubbi sulla sua non esistenza, il creare confusione introno alla sua figura e decidere a senso unico  cosa lasciar trapelare e cosa occultare o più semplicemente inventare  una storia senza fare ricerche approfondite.  E su questo ci sarebbe da dedicare molte ore di argomentazioni. Insomma nella piazza parliamo di lei  di come si divertisse a scivolare sulla neve  nella strada principale  o come restasse ore e ore a guardare incantata  il mercato dal balcone di casa sua. 

Marinette Reboul ci racconta “Ho conosciuto Vivian, ma ero tanto giovane! meriterebbe fermare il tempo delle volte! Ha vissuto qua con la mamma.  Mi ricordo della scuola.  Lei era avanti di due anni.  È diventata famosa, ci sono stati articoli dappertutto.  Fotografa eccezionale.  Ha fatto delle foto meravigliose.  Ha fotografato delle cose inattese.  Fotografie che non sono abituali. Era alta, fisicamente non era male. Giocavamo a campana, era formidabile! Qui nella piazzetta. E quando c’era la neve scendevamo sul corso in discesa, lo facevamo tutto fino in fondo con lo slittino!”

Oppure di come non fosse contenta di partire per il suo ritorno in America nel ’38  dopo aver frequentato tutto il ciclo delle elementari in Francia pressochè in una bellissima campagna,  libera e senza pensieri.

Così ci racconta Lea Anselme. “Viveva un poco ritirata,  non era timida ma parlava poco. Era molto riservata. Non raccontava niente della sua vita. Era riservata. Non era scontenta, era riservata e quindi  il dialogo era difficile con lei.L’altro giorno sono stata dal dentista e ho visto delle sue foto su una rivista. Foto magnifiche. Me la ricordo quando era sul suo balcone  e guardava incantata la fiera. Mi sembra che non era contenta di partire per l’America. Mi sembra proprio che non voleva. Mi chiedo ancora se fosse davvero contenta di andarsene. È stata obbligata. C’era qualcosa che non la rendeva felice. Non era per sua madre. No, suo padre non l’abbiamo mai conosciuto. Era sempre alla ricerca di qualche cosa.”

In questa piazza c’è un cartello inchiodato sul tronco di un albero E sorprende in un paesino così piccolo ci sia una sala per le proiezioni. Ci raccontano si tratti di un piccolo teatrino. In quel teatro Vivian Maier ci andava durante il suo soggiorno francese. Soprattutto negli anni tra il 50 e il 52,  quando aveva 24 anni  e si era già inserita nella vita americana d New York. Bene il teatro è ancora funzionante, tutte le settimane apre,  c’e un circolo che organizza un cineforum. Insomma è tuttora attivo.  La stradina è stretta. Andiamo a vederlo. Semplice, artigianale. Col tempo, dopo le nostre frequentazioni, con gli amici dell’Association Vivian Maier et le Champsaur che stanno facendo un lavoro di ricerca e di ottima cultura sulla fotografa ci invitano a presentare lo spettacolo proprio lì. Quando è tutto pressochè deciso Allora ci andiamo per un sopralluogo. Una delizia. Un centinaio di posti. Un piccolissimo palcoscenico.  Tutto un poco cadente, provvisorio ma pieno di fascino. Allora ci mettiamo in moto per lo spettacolo, la traduzione, imparare il testo  e soprattutto la pronuncia  che va curata, raffinata. Finalmente vengono i giorni della rappresentazione. Si allestisce la rappresentazione e il montaggio di tutto il materiale, a malapena ci entrano il proiettore, che non può entrare dietro lo schermo di proiezione, ma l’emozione e la voglia sono alle stelle. Alla fine il pubblico arriva e si può dare inizio allo spettacolo. Tre repliche. Alla fine di ogni rappresentazione il dibattito, vengono anche i suoi compagni di giochi. Emozione fortissima! E’ un evento anche per la cittadina. Così come è stato quando hanno fatto l’esposizione di fotografie donate al comune da John Maloof e i soggetti ritratti si sono riconosciuti e si sono ricordati di quella scriteriata che andava in giro con due macchine fotografiche e scattava chiunque e ovunque, dai funerali agli eventi, i parenti e le amiche.

Continuiamo con il cinema e Vivian Maier Poi Vivian ritorna in America e si stabilisce a Chicago. Ci sono diverse testimonianze di persone che conoscono Vivian. Lei frequenta attivamente la vita culturale della città.  Cinema, teatri, biblioteche e università. Frequenta alcune lezioni ed interviene sempre con domande. Spesso si reca al Film Center, Una sala di film sperimentali,  il direttore è Jim Dempsey  che dichiara che quando lei gli parlava gli stava così vicino che sperava non ritornasse più. Ci sono stato quando sono andato a Chicago. Nel viaggio-studio per verificare i luoghi della sua vita ed alcune fonti. Ho fatto alcune foto  e nella scena dello spettacolo in cui racconto impersonando il personaggio di J., una sintesi dei diversi ricercatori della fotografa al quale è affidato  il compito di raccontarci i momenti storici  e cronologici della sua vita, racconta della frequentazione della Maier agli eventi culturali. 

A proposito di Cinema e Vivian Maier sono importantissimi i suoi filmati. Filmava in super otto e sedici millimetri. Interessantissimi. Andava in giro con a tracolla a volte una solo  a volte con due rolleiflex  e anche una cinepresa.  In quelle pellicole c’è molto da capire. Secondo me ci sono i veri occhi, si scopre cosa lei guardasse davvero,sono come degli studi, degli abbozzi.  Si capisce cosa cercasse delle persone.  Sono proprio la testimonianza  di dove cadesse il suo sguardo cosa le interessasse davvero. Si fissava su di un particolare, non gli staccava gli occhi di dosso.  Sapeva individuare le persone particolari,  sembrano i filmati di una caccia grossa. Aveva un occhio magico. Sembra una fotografa istantanea. Ce l’hanno sempre presentata come una persona compulsiva, una sorta di serial killer della fotografia, che impazziva se non scattava, ma secondo voi chi non è così dei grandi (o piccoli) fotografi? Di ogni appassionato di questa pratica? Abbiamo abbastanza questa idea. Scatti, scatti scatti in continuazioni, frenetici, era malata,compulsiva, click, click, click in continuazione. Ma attenzione, lei guardava prima, seguiva, braccava la sua preda con attenzione. Con tenacia e cura e circospezione. Certo poi se ne andava. La pensiamo… come un gatto.  Tin tin tin si avvicina stile cartone animato, nascosta,  furtiva, click e via.

Su di questo ho scritto una mezza paginetta nel libro. Si intitola “L’autre Vivian, un viaggio inedito nella Francia di Vivian Maier”  e riporta molte interviste, ragionamenti e ricerche sulla grande fotografa. Nel brano che vi presento parlo un poco di fotografia. E sono quasi parole che attribuisco a lei. Ve la leggo.

“Veloce non significa affrettato. La velocità si avvicina alla rapidità, ha qualcosa di animalesco è una dote fondamentale per un fotografo, si deve avvicinare anche silenziosamente, deve dominare la situazione, deve essere reattivo, deve prevedere, deve impostare i parametri della macchina fotografica. Affrettato è usato troppo spesso come sinonimo ma significa ben altra cosa, una fotografia affrettata non è pensata, non nasce da un bisogno, da uno stupore, da una ricerca, accade, è molto simile al termine “di sfuggita”, sa di animale in fuga, quando si avvicina fa disastri, è dominato dalla situazione,  sa reagire perché scatta, quello che viene viene, magari avrò fortuna. Vivian Maier sicuramente in questo senso amava la velocità. Veloce, mai affrettata”

Questa è un poco la nostra malattia, essere veloci, soprattutto e troppo con le fotografie.

Ma torniamo ai filmati super otto. Perchè ce n’è uno splendido. Sapete, lei faceva la bambinaia e ha seguito per tantissimo tempo  i 3 figli della famiglia Gensburg. Si affeziona tanto a loro.  E loro a lei, così tanto che saranno loro  a prendersi cura di lei quando invecchia,  loro trovano per lei un’appartamento al Rogers Park di Chicago Ci sono stato.

A Chicago c’è un lago enorme, il lago Michigan L’orizzonte è sempre acqua, come il mare, dall’altro lato c’è il Canada. Insomma in questo parco, un piccolo parco ci sono arrivato. Ed arrivarci è un’esperienza  La fermata è soprannominata “The Hell”, l’inferno. Scendo e capisco immediatamente,  poichè ero solo,  che la prima cosa da fare è ritirare la macchina fotografica,  nasconderla per bene. Arrivo nel parco e trovo la panchina dove lei sedeva per ore e ore  a guardare il lago,  la gente. E’ un piccolo parco. Molto molto carino. Qui i suoi bambini i tre figli Gensburg la aiutano a sopravvivere e un poco la seguono. La aiutano a trovare casa. E a proposito di loro il film più bello è quello del campo delle fragole. Un grande campo dove Vivian li accompagnava sempre. Era il loro preferito. Una sorta di giardino segreto. Luogo di giochi. Si dice che lì i fratelli abbiano disperso le sue ceneri. Insomma: c’è il filmato di questo campo. Probabilmente uno di loro, o un loro amichetto si impadronisce della super otto di Vivian e li filma.Da qui si capisce anche come lei si dedicasse loro. Una tata ideale,  una splendida zia quasi.

E vorrei chiudere con l’arte del cammuffamento. Potremmo intitolare questo capitolo finale. Il cinema è l’arte ideale del cammuffarsi, come il teatro.Vi riporto le parole di Gaston Gay  un membro dell’Association Vivian Maier et le Champsaur ce ne parla.

“Questo “camouflage” penso nel vestire nell’essere di non parlare le permetteva di rubare la loro intimità delle persone di prendere sul vivo non so se di dice un istante il più favorevole per quel che voleva dire quel che voleva mostrare  Li prende nel vivo.  Un istante, il più favorevole per quel che voleva dire. Voleva mostrare.  Ha fatto un lavoro fantastico in America: mostrare la vita della gente  sia povera sia ricca,  sia giovane sia vecchia  e questa testimonianza storica e sociologica  prova che questa signora che per me è una  signora, ma una donna prima di tutto,  e dunque una signora, perché aveva una visione universale, una visione moderna. Voleva mostrare a tutti le qualità ,ma anche tutti i difetti della società americana.  Lei andava nei quartieri poveri, pericolosi e questo “camouflage” nel vestito nell’apparenza di una donna senza essere troppo donna le permetteva di prendere queste foto, rubate, e di non essere disturbata dagli uomini e dalla gente.”

Ecco questa era Vivian Maier e il cinema.

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Grandi fotografi in Francia – Roberto Carlone

Grandi fotografi in Francia. Un manuale per viaggiare tra luce e fotografia, legami, diorami e la nascita della fotografia.  Se non conoscete Gilbert Garcin un fotografo molto particolare, molto divertente,  per certi aspetti molto ai margini, surreale e veramente artigiano, allora questo viaggio tra i fotografi in Francia ne vale la pena. Vivian Maier in Francia aveva le sue radici, la sua famiglia e ci ha passato la sua infanzia scolare e poi ci è tornata quando aveva 25 anni. Lì c’è la sua sete di infinito, i suoi spazi aperti e il suo paesaggio interiore. Ci nasce la fotografia in Francia e la traduzione che loro danno è molto più stimolante di quella che ci raccontano di solito.

Oggi andiamo tutti insieme in Francia, andiamo a vedere un poco cosa succede da quelle parti. E perchè. Sono molto legato alla Francia per svariati motivi. Estetici ed artistici. 

Francia dunque. Lì ho scoperto una grande umanità e il sapore della storia che si manifesta in tutti i piccoli paesi, in una sorta di continuità architettonica che è stata voluta preservare fin dagli anni ’60. Queste storie vogliono parlarvi dei LEGAMI che ci sono tra gli avvenimenti. Bene. Oggi il fil rouge che ho scoperto è la Francia. C’è un personaggio, un fotografo molto particolare, molto divertente,  per certi aspetti molto ai margini e soprattutto anomalo. La cosa che mi interessa, lo avrete capito, sono le persone un poco ai margini che stanno un po fuori dai riconoscimenti categorizzati, eretici. Lui si chiama Gilbert Garcin. Mister G.

Francia n.1 La fotografia ci nasce. E facciamo una premessa.

La Francia è un poco la patria della fotografia, è stata la madre della fotografia. Lo sappiamo tutti quanti che la fotografia nasce lì. Arriva alla fine di un processo di ricerche che stava diffondendosi in Europa.  Ma il padre riconosciuto della fotografia viene ritenuto Luis Mandè Daguerre che nasce nel 1787 e muore nel 1851, la prima fotografia porta la data del 1839. Viene stampata su una lastra ricoperta di argento e con un a serie di procedimenti chimici si manifesta. Parallelamente a lui sta facendo degli esperimenti anche William Talbot con i suoi disegni fotogenici. Lui invece stampa a contatto delle foglie, delle chiavi, quello che ancora adesso si fa nelle scuole su una carta sensibile, e queste sono le due strade che vanno parallele.

 Francia n. 2 Gilbert Garcin

Ora ve lo presento è questo signore. Purtroppo è morto poco tempo fa, a 90 anni. Lui è stato un fotografo, diciamo, quasi per caso. Nel senso che  pare non avesse mai fotografato nella sua vita fino a quando non va in pensione. Per passare il tempo e vincere la noia si mette a fare fotografia. Lui prima faceva l’imprenditore e costruiva lampadari per appartamenti quindi ha passato tutta la vita a fare questo. Nasce nel 29 a La Ciotat vedete tra Marsiglia e Tolone sul mare in un posto molto bello. Si iscrive e frequenta un circolo fotografico Ancora non sa quello che lo aspetta, ma si butta in questa avventura fotografica. Vince un concorso del loro circolo e il premio, cosa secondo me splendida,  constava in una partecipazione al festival della fotografia di Arles, un seminario. E qui siamo negli anni 90 non è che sia poi tano tempo fa, lui eccolo qua di nuovo ha la trasformazione, la folgorazione.  Con questo workshop viene introdotto all’arte del fotomontaggio, nel senso di ritagliare delle foto, rifotografarle e sperimentare questo metodo. Da qui comincia a costruire quella che diventerà poi anche la sua fortuna e la sua popolarità. Diventa poi un fenomeno a livello mondiale molto importante . Volevo darvi un poco di segnali per farvi capire chi è lui e poi vedremo come fotografa e che cosa fa. Avete presente monsieur Hulot che era interpretato da Jacques Tati nei suoi film, ecco un po’ quel personaggio che lui ricrea e inventa, indossa sempre un impermeabile , molto naif, molto surreale, molto impacciato, molto spaesato soprattutto. Ecco lui prende queste  caratteristiche e le sposta nel mondo della fotografia. Sono foto di solitudine, di infinito, di vuoti, surreali. 

La prima foto che ho visto e ho scoperto è bellissima.  C’è lui al centro di un bersaglio che tira frecce verso l’alto e le altre frecce sono tutte piantate in terra. Quest’arco è un suicidio lancia le frecce in alto e lui è al centro del bersaglio,  già altre frecce sono ben piantate già lanciate giù. 

Un’altra è intitolata “il mulino dell’oblio” un’allegoria sulla vita, una condanna. Qui è presente una delle sue caratteristiche: il mondo che è impossibile da vivere, ci parla di questa fatica pazzesca, di questa impossibilità, dell’ogni sforzo vano. Però nel medesimo tempo angoscia e tenerezza convivono, questo piccolo uomo ci commuove è cosciente. Un uomo inutile.

Oppure sii presenta come buono a nulla dice il titolo, good for nothing, con questa scopa è lì che sta aspettando qualche cosa, la realtà è che questa scopa grava su di lui ignaro e tra poco lo spazzerà via. Tuttavia lo fa con una semplicità estrema con un ‘ingenuità con una leggerezza anche se la situazione è molto pesante, rasenta il clownesco, di sicuro rideremo quando volerà fuori dall’inquadratura.

Questa è un’altra tra le foto veramente splendide. Questo telo che non si capisce se sta sollevando, se sta tirando, se nasconde o rivela se riesce a scoprire. Questa ambivalenza mi piace tantissimo. “Oltre la superficie delle cose” è il titolo.

Ora una foto di quelle più conosciute e famose Il signor G. quest’uomo che vola. E’ un surreale tardivo, che arriva qualche decennio dopo, lo vedete e lo capite, però si ispira anche tantissimo a quella corrente artistica.  Qui lo vedete, a me viene in mente Paul Klee. Una ricerca geometrica. La geometria coniugale. A un certo punto coinvolge la moglie in queste fotografie. Questo quadro che è vuoto e sotto di lui c’è un vuoto infinito, è uno spettacolo del nulla, visionario e onirico, la vertigine che attira. Lui che guarda dentro, come un uomo che assiste a dei lavori in strada. Una delle sue particolarità è proprio quella di essere una persona che si inventa una realtà parallela , una persona che si inventa un altro universo.

E qua incominciate forse a capire quello che lui fa e come lo fa, è la cosa più interessante, e la cosa più incredibile è il modo in cui realizza queste opere e adesso ve lo svelo con questo filmato. Lui si fotografava, poi stampava le fotografie, le ritagliava e le inseriva in un teatrino, in un set cinematografico, in una realtà che si era inventato, costruita con dei piccoli oggetti , questi sono dei cordini, oppure con del materiale recupero e sempre c’era questa sabbia e questa spiaggia anche perchè abitando da quelle parti era molto spinto e innamorato era il paesaggio che conosceva. Ci racconta la foto del palloncino, C’è un fondale che è la fotografia di un cielo. Poi davanti un mucchietto di terra su cui è infilata la sua  fotografia che è costruita con un altra fotografia e non ci sono tantissime parole se non proprio sentire questo peso di qualcosa che lo incatena alla terra e non gli permette di volare come vorrebbe lui, saltare via, vorrebbe andare altrove. E’ un Sisifo impotente e perplesso così forse la pietra non rotola più. Si sente nelle sue foto Albert Camus quando ci racconta che l’uomo nella sua condanna diviene consapevole dei proprii limiti, cerca la gioia dentro questa terribile prigione.

Il tema del volo, il tema di Icaro è presentissimo nelle sue foto. Chiudiamo con quest’ultima che è la foto di chiusura della sua vita, mi sembra no? Con questo nero sta cancellando quella che è la sua passione, tutto il suo mondo quello che si è creato e tutto sta per diventare tutto nero, diciamo che è la sua foto d’addio, mi piace pensarla così.

 E adesso restiamo sempre in Francia e spostiamoci con un salto.

Francia n. 3 Vivian Maier.

 Le mie ricerche fotografiche legate a Vivian Maier. Les Hautes Alpes sono qui vicine all’italia confinano praticamente col Piemonte, sull’altro lato. Si passa il Monginevro e questa è la zona di Vivian Maier.ad est di Gap.  Qui possiamo vedere dei paesaggi che sono stati la cosa che più mi ha incantato. Vivian Maier si trasferisce con la madre quando ha 5 anni e passa tutto il periodo delle elementari. Vengono dall’America dal Bronx.  Questi paesaggi se li porterà sempre nel cuore. Questo potrebbe essere un diorama, difatti nello spettacolo che ho allestito insieme a Caterina Cavallari a volte Vivian è in ombra, sapete lei amava tantissimo fotografarsi in ombra e  ogni tanto compare la sua ombra ed entra dentro queste fotografie, su questa panchina si siede e questi sono i prati che Vivian aveva negli occhi. Questo è proprio veramente il prato che aveva di fronte alla casa di suo cugino dove erano ospitate. Vedete che respiro. Spesso lei veniva qui. Negli anni 50 ritorna in Francia e scatta le sue prime foto.  Qui ci veniva con la bicicletta. Questa chiesa di cui vi parlerò in una prossima diretta, delle sue statue che sono molto particolari. Questo invece è il retro della casa. Foto tratte dal mio libro “L’autre Vivian”, fotografie  di quando ci sono stato la prima volta, c’era un vento incredibile e questo era quello che Vivian Maier vedeva dai cinque ai dodici anni. Questa è la sua casa, questa è la casa di Vivian e qui infatti faccio uso di una sorta di diorama, di una specie di teatrino di ombre cinesi e lei compare sul portone di questa casa e ci racconta delle sue paure.

Francia n. 4 Le buone traduzioni.

Per salutarvi vorrei chiosare su un discorso sula luce e sulla fotografia un poco per chiudere il cerchio di quest’oggi perchè tutti lo sappiamo e lo dicevo all’inizio la prima foto nasce in Francia. Ora vorrei farvi un pezzettino dello spettacolo “Fotografie da appartamento” che faccio in diretta su Zoom, è una diretta in cui suono racconto e vi faccio vedere le fotograie che ho scattato durante la prima quarantena 

La fotografia dicono voglia dire scrivere con la luce.

E’ come se prendessi una cosa che non posso prendere e la passassi su di una superficie per lasciarci una traccia.

A me non piace; mi piacciono di più i francesi che l’hanno inventata un poco loro, la fotografia e dicono “luce che scrive”.

Prima c’è la luce.  

Poi la scrittura, che potrebbe anche non esserci, la scrittura. La luce è lì, colpisce una persona pure o un oggetto. Una collina. La luce invade una parte dell’oggetto, che diventa soggetto, gli mette un accento o gli toglie qualcosa, e tutto si riflette. E questo riflesso di luce viaggia fino ad arrivare all’obbiettivo. Lo attraversa. E Subito dopo entra in un luogo completamente buio. Lì si raccoglie una parte di mondo e, dentro a quel buio, si posa su di una superficie. E’ LA LUCE che scrive sulla pellicola, o su un sensore. E’ QUANTA decido di farne entrare. E’ QUELLO che decido che entri. Prima la luce, poi la scrittura. La luce è la materia prima. La scrittura il mio intelletto.

Questo è quello che mi affascina di più dei francesi. Direi che questo viaggio in Francia finisce qui. Non abbiamo speso tanto, allora possiamo dire che ne è valsa la pena. Se questa piccola produzione indipendente ti ha soddisfatto allora puoi sostenere la mia attività mettendo un sonoro ed entusiastico  mi piace. Se il tuo grado di soddisfazione ti avvicina alle stelle ed hai paura di perderti i prossimi video allora iscriviti al mio canale. Più diventa grande, più verrà conosciuto e contribuirai ad una buona diffusione di un modo diverso e di buon livello della cultura e della sua diffusione sulla rete. Se vorrai effettuare una donazione la potrai inviare al mio conto PayPal robbianda@me.com grazie alla quale aiuterai a migliorare la tecnica di questo canale, sto pensando ad un Green screen per le dirette. Grazie ancora e alla prossima.

Arrivederci a tutti.

Bianchi

Il bianco in fotografia. 5 legami. Tutti i bianchi della fotografia. Cinque argomenti legati tra loro da 5 piccoli legami, ognuno chiama l’altro e lo spinge un poco più in là.

Tutti i bianchi della fotografia. Facebook mi ricorda di un avvenimento di 6 anni fa. Parto da qui e mi lascio portare per parlarvi di 5 argomenti legati tra loro da piccoli legami. Ognuno chiama l’altro e lo spinge poco più in là. Dei cortocircuiti che li mettono in contatto. E questo ci porta ad un colore che ci guiderá in  questa sera.

Non si tratta di un fil rouge ma bensì di un fil “blanc”. Il bianco ci guiderà nei pensieri e nelle foto di questo incontro.

Bianco n.1

E vi racconto perchè. L’avvenimento a cui mi riferivo è la mia prima mostra in via Cavour ad Arezzo. Si intitolava PAESAGGI PARZIALI ed era situata allo studio MILK. Milk è il latte, e il latte è di colore bianco. Partiamo da qui.

Ed entriamoci in questo colore.  Erano le foto di un viaggio in America. Scattai tantissime foto e mi proposero di esporle in questo studio che per l’occasione si trasformava in galleria. L’immagine di presentazione la intotolai “Hypnosis and Reflections”. Arriviamo in hotel e dalla finestra il primo paesaggio che vedo è un palazzo grande con le sue finestre che si ripetono fino all’ossessione.  Ogni finestra una vita, una storia. E il sole che radente evidenzia ogni mattone, ogni fregio. Lì di fronte c’è il mondo condensato. È un condensato di vite ai margini. Prostitute, spacciatori, vite al limite.

Paesaggi parziali perché?

Questa la cartolina di presentazione. La presentazione diceva così: “paesaggi visti da un turista: assimilo tutto come un paesaggio che si schiude ai miei occhi senza intenzionalità, che ti capita davanti, non lo scegli e non cerchi niente, ti imbambola, riflette ed ipnotizza, si moltiplica. Trovi sempre dei buchi, delle crepe, delle finestre attraverso cui guardare e al di là delle quali senti che si apre un mondo in cui da turista non puoi che definire parziale”. Le prime foto che accolgono i vistatori della mostra all’ingresso raccontano dell’inizio del viaggio: Capisci che l’America è un’altra cosa quando ti svegli nel cuore della notte e vedi dal finestrino ghiacci che non hai mai visto. Immensi e galleggianti.  Ti dicono che stai andando lontano.  Da un’altra parte. Spazi aperti e sconfinati ti aspettano ed esistono. Arrivi. Lo sai e lo senti che sei controllato, schedato, l’immigration ti fa sentire in quarantena anche se dura mezzora, ammassato, controllato, schedato . La storia dei nonni che si ripete, e che silenziosamente ripeti. Lasci le impronte, cedi l’iride,  la proprietà del tuo corpo è momentaneamente loro.  Sanno chi sei senza sapere chi sei. E questo peró ti fa sentire libero. Ma nel medesimo tempo senti che potrai essere quello che sarai: un avventura possibile. Una sensazione rara.

San Francisco.

Splendida, libera, una città del possibile. Una giostra, le montagne russe, un continuo saliscendi. E ogni tanto uno spicchio di Italia. La nebbia arriva in due secondi. Bianca anche lei. Il golden Gate Bridge. Ma dal lato B. Un lato insolito.  In basso il brulichio di un cantiere. Il backstage di una attrazione. E poi Alcatraz, visita obbligata.  Li senti ancora quella ciurma di detenuti.  Al dilà, un’isola nell’isola. E un vetro non basta. Anche se il buco è dimensionato per la canna di un fucile in caso di rivolte. Poi alla Death Valley alla volta di Las Vegas. Qui i paesaggi non sono più tanto parziali ma infiniti.

Una sosta a Dante’s Peak nella Death Valley.

E scatto questa foto. Forse tutti sapete che il legame tra la Banda Osiris di cui sono il fondatore e Caterpillar di RadioDue è strettissimo, nostra è la sigla. Allora questa foto era perfetta. La invio alla redazione, piace.  Tutti gli anni c’è il caterraduno una festa, un incontro tra il pubblico e i conduttori. Un’idea geniale. Il giorno della chiusura c’è l’asta benefica per Libera di Don Ciotti. Prendo il coraggio e decido di offrirla. Insomma finisce che la foto viene battuta a novecento euro.  La mia prima foto resa pubblica. Novecento euro. Un valore gigantesco. Neanche Bollani che offre una chiavetta con tutte le sue registrazioni raggiunge una cifra simile. Lì ho capito a cosa serve una fotografia: è qualcosa di UTILE.

Ma ritorniamo alla Mostra e andiamo alla fotografia che amo di più e che è quella che ci permette di fare il primo salto.

Bianco n. 2 MILK.  Milk il luogo della mostra. Milk un locale di Castro, San Francisco. Milk. Harvey Milk. Adesso vi racconto. Siamo nel quartiere Castro. Il piû libertario. Entriamo nel bar, il bar a lui dedicato.  Giustamente prima di prendere una birrà mi chiedono i documenti. Questo è uno degli aspetti che mi piace dell’America. C’è una legge e si applica senza distinzioni. Anche se sei in una zona franca. Tutti uguali. Tutto chiaro. Sempre. Sandra si siede per tenere un tavolo. E la foto si crea da sola. Harvey Milk (1930-1978) consigliere comunale assassinato insieme al sindaco Moscone da Dan White un consigliere indignato per lo strenuo e persuasivo impegno di Milk contro la Proposition 6, la legge che avrebbe permesso il libero licenziamento degli insegnanti dichiaratamente omosessuali. Milk aveva aperto un negozio di fotografia nel quartiere di Castro a San Francisco. Fin dal suo arrivo a San Francisco si impegna per ottenere diritti per la comunità gay. Nel 77 viene eletto come consigliere comunale affermandosì così come il primo omosessuale dichiarato ad ottenere un ruolo politico rappresentativo. Nonostante San Francisco fosse a suo modo più aperta e inclusiva di molte altre città e aree del paese, la sua elezione risulta essere comunque uno spartiacque nel contesto generalmente più ostile e ancora arretrato nei confronti degli omosessuali. Dopo l’assassinio si arriva al giorno della sentenza molto blanda che indigna la comunità di Castro e spontaneamente si crea un corteo in sua memoria, a lume di candela e decorato dalle bandiere arcobaleno –simbolo del movimento omosessuale – nato in conseguenza di questi eventi,  “sottolineò il legame tra MILK e la sua comunità, tra le prime ad aver abbattuto il muro di silenzio e soggezione che divideva una parte sociale da un’altra, i diritti di serie A da altri di serie B,  gli individui dagli altri individui.  Ancora oggi, la figura di Harvey Milk (negli Stati Uniti, ma non solo. In Europa anche) rappresenta la determinazione di un uomo, di più uomini, nell’affermare il proprio orgoglio di parlare,  di partecipare,  di esserci e, prima di tutto, di essere.”

Ora creiamo un altro legame, un secondo cortociuito legato al bianco.

Bianco n. 3 Neve

Bianco della nebbia di San Francisco, bianco metereologico, bianco della neve. Come sapete ho creato uno spettacolo on line fatto di musica, racconto, cinema d’animazione e fotografie che ho scattato durante il periodo della quarantena. Si intitiola “Fotografie da appartamento” e lo presento sabato prossimo alle ore 21.00 in diretta e dal vivo su Zoom. C’è un capitolo legato al fuori, all’aperto,  alla vista che abbiamo dal terrazzo che dà sull’anfiteatro e ve lo vorrei proporre, un piccolo assaggio. Ha nevicato quando era quasi primavera. Eccolo qua. Il silenzio è stato il regalo più bello di questo tempo. Stupefacente la prima sera e poi la seconda e per due mesi, ogni volta così. Le foglie mosse dal vento, piccoli rumori impercettibili gentili compagni delle notti di luna.  Un lato dell’appartamento è verso una strada del centro: il lato urbano. E l’altro è quello più naturale grazie al parco dell’anfiteatro.  Da sempre in conflitto, inconciliabili.  Grazie ad un piccolo virus l’urbano e il naturale sono stati uniti dal silenzio. E la neve sancisce questa unione.  E’ inutile che vi dica che le città andrebbero ripensate.  Per almeno un mese mi sono detto che forse si poteva ripensare il mondo, le città, le abitudini, l’economia, il lavoro, la terra che ci ospita. E lo dice chi  si è conquistato il privilegio di vivere la vita che volevo. Abbastanza.  Poi tutto è tornato come una dissolvenza neanche tanto lenta verso la vecchia stupida, fottuta, noncurante, volgare  e violenta “normalità”. Ci vogliono tempi lunghi e tanta pazienza e virtù.

Bianco n. 4 il bianconiglio

Quarto CORTOCIRCUITO. Se si parla di Bianco allora si parla anche di Bianconiglio. Ho riletto Aiice nel periodo della quarantena. E oggi mi è tornato in mente un brano musicale.    WITHE RABBIT dei Jefferson Airplane.  Un omaggio a Lewis Carrol e alla libertà. una canzone con un testo visionario, da LSD. Vi leggo la traduzione. Una pillola ti fa diventare più grande,  e una pillola ti rimpicciolisce E quelle che ti dà tua madre,  non servono a niente. Prova a chiederlo ad Alice,  quando è alta tre metri. E se tu vai a caccia di conigli,  e ti accorgi che stai per cadere dì loro che un bruco che fuma il narghilè  ti ha mandato a chiamare. E chiama Alice,  quando è proprio piccola. Quando gli uomini sulla scacchiera si alzano e ti dicono dove devi andare. E tu hai appena preso qualche specie di fungo, e la tua mente sta affondando. Prova a chiedere ad Alice, penso che lei saprà la risposta. Quando la logica e le proporzioni delle cose sono cadute morte al suolo. E il cavaliere bianco sta parlando all’incontrario E la regina di cuori ha perso la sua testa Ricorda quello che aveva detto il ghiro: Alimenta la tua mente, alimenta la tua mente

Composta da Grace Slick

White Rabbit racconta la storia di Alice che diventa altissima – espande la mente – e più piccola – senza potere – e che immagina e incontra ogni sorta di creature magiche. Naturalmente – come accadde a Lucy in the Sky with Diamonds dei Beatles – la canzone fu interpretata come la descrizione di un “viaggio” sotto LSD, con ovvi riferimenti a pillole e funghi allucinogeni. Ma la canzone può anche essere vista come una allegoria della generazione persa dei giovani americani durante la guerra del Vietnam. Alcuni andarono a “cacciare conigli”, altri decisero di seguire il richiamo del “bruco che fuma il narghilè” e protestarono, disertarono, bruciarono le cartoline di leva. Questa canzone fu un grido di battaglia della controcultura che tanto fece contro la guerra.” White Rabbit” è un appello a risvegliarsi, che infatti venne accolto.White Rabbit è una canzone di libertà, una chiamata alla mobilitazione per superare l’ordine patriarcale del tempo, per fare ingresso nel mondo della creatività e della conoscenza. Il messaggio finale, nelle parole del Ghiro, è “alimenta la tua mente”, acquisisci consapevolezza.

Bianco n.5 Vivian Maier

Quinto cortocircuito. Che ci lega al Bianconiglio c’è una foto, molto bella scattata da Vivian Maier.  Una foto di conigli bianchi su di un balcone. Vivian Maier aveva occhi dappertutto. E questa foto non se la lascia proprio sfuggire. Che fa partire una serie legata al bianco e alla neve. Ecco queso era il mio Bianco, tutto quello che ci avrebbe potuto abbacinare, quello che ci avrebbe obbligato a mettere gli occhiali da sole. I bianchi a volte in fotografia sono i bruciati, quello che ci obbliga ad eliminare una foto, che c ifa dire mannaggia se stavo più attento: la troppa luce. Invece si sono limitati, la abbiamo controllata l’eccedenza di luce. E ci siamo fatti accompagnare da loro.

 

Vivian Maier, l’altra

Vivian Maier, l’altra. Un tesoro con cui si fanno i viaggi nel tempo. Lei è un esempio della forza della fotografia.

Lei sa entrare in contatto, non cerca mai lo scandalo fine a se stesso, ci dice qui c’è il mondo, così va. Scatta e va via. Lei la fotografa di strada. La fotografa nella strada.

Vivian Maier è un tesoro che si svela ai nostri occhi, una ricchezza che ci viene donata.

Un salto nel tempo. Una fortuna ridare una vita a momenti di quaranta, cinquanta, sessanta, sett’antanni fa.

Possiamo vedere che la forza di una fotografia arriva ancora a noi, quasi non ci accorgiamo che i vestiti, le auto, le acconciature sono di sessant’anni fa. Quello che ci arriva è l’attenzione verso le persone, il catturare la loro essenza di povero, blaguer, poliziotto di donna imbellettata o operaia in difficoltà. Sono attuali e puntano all’essenza, sono degli archetipi ancora validi.

Vivian Maier sa smascherare con sapienza. Sa entrare in contatto, non cerca mai lo scandalo fine a se stesso, ci dice qui c’è il mondo, così va. 

E guardare le sue foto è come stare in un film, di quelli belli, forti, che ti prendono.

C’è un fotogramma che ci arriva, e il più delle volte, anzi sempre, (le sue foto non erano dieci, venti allo stesso soggetto ma una e una sola) sempre ci racconta tutto. Ma ci racconta con un prima e un dopo. Prendetene una caso delle sue foto. E ci renderemo conto che scattano domande, dopo poco. Chi era quella persona, perché si è fatta fotografare? Veramente da dove veniva, perché era lì. A che cosa stava pensando mentre Vivian Maier le scattava quella foto? Era felice, triste? E’ come se ci fosse già un dialogo nelle sue foto, come appunti di un discorso. Queste due donne si sono agghindate, una ha aspettato l’altra, poi sono uscite, per andare dove, a un incontro benefico? A fare shopping, al cinema? E tu sei lì con loro, sei in quei marciapiedi, affacciato a quelle finestre, tu passeggi e ammiri quella diversità estrema e contemporanea.

Possiamo vedere che la forza di una fotografia arriva ancora a noi, nonostante si sia sempre nascosta, abbia celato le sue foto. Su di lei è stato costruito un mito, senza badare a leggerezze, trucchi per renderla un fenomeno tralasciando di considerarla come una fotografa, una donna. Bisognerebbe catalogare le sue foto, fin dall’inizio disperse senza criterio, e darle il riconoscimento di un’opera di una grande donna con una sensibilità elevatissima. In questo video cerchiamo di liberare la persona dal personaggio, un piccolo tassello per permettere di essere considerata pienamente una fotografa. Come poco alla vota sta succedendo. Precisazioni e una visione un poco diversa di lei.

Dopo quattro anni di tournée che hanno portato “Gli occhi di Vivian Maier – I’m a camera” nei teatri italiani, francesi e svizzeri, un libro, due installazioni con le sue foto originali, sempre in collaborazione Caterina Cavallari, un nuovo video per spingere avanti il suo valore.

Visita il canale YouTube cliccando qui, ci sono moltissimi video dove unisco musica, parole, fotografie e cinema d’animazione. Un luogo dove scambiare opinioni e visioni, per far crescere con valore l’utilizzo della rete e dei social.

Sogni come legarli e non farli svanire

fotografia di sogni

Sogni. Molti sogni. 

Ho creato un mondo costruito con tutti i miei sogni sovrapposti. Ho imparato come legarli e non farli svanire. Ci sarebbe da scrivere un manuale su come riconoscerli e tenerli vicini. 

Ho creato dei sentieri a forza di frequentare alcuni sogni preferiti., aperto delle vie che hanno creato nuovi sogni continuando a crescere questo mondo. 

Vento, spine, alberi, foglie, brina, acqua, voragini, deserti, il mare, un pescatore. 

Quando li ho riconosciuti o incontrati nella vita allora li ho fotografati. Perchè già li conoscevo. Già erano miei. Ora li ho legati perchè non mi fuggano via.  

Fotografie, musica e scrittura sono tutte farina del mio sacco.

Da qualche parte, sempre sul canale YouTube , “Incubi” l’altra faccia dei sogni. Clicca qui.

Confini uscire con la Rolleiflex la paura di sbagliare

Uscire con la Rolleiflex e la paura di sbagliare.

Un manuale pieno di appunti. Per un fotografo che vuole iniziare ad uscire dai proprio confini: uscire con la Rolleiflex e tenere nascosta la paura di sbagliare. A volte si resta fermi con un idea, ma siamo sicuri che ne valga la pena? Vi racconto di come ho preso coraggio e sono uscito in una giornata qualsiasi d’autunno con un gioiello della tecnica fotografica: una Rolleiflex 3,5 F. Ci riuscirò? E se sbaglierò esposizione? Se sprecherò un rullino? Eppure non è così difficile, né impossibile quando si usa la testa. Quando apri il pozzetto si apre un mondo unico. E non ti puoi più fermare. Ne presento qualcuna di quelle foto così come sono venute. Solo con lo sviluppo di Giulio Limongelli di Bologna che poi ha scannerizzato. E la passeggiata è stata a Camaldoli nel Parco Nazionale delle Forest Casentinesi. E’ stato come aprire non solo una porta ma entrare in un nuovo continente. Ne è valsa la pena? Guardando il video si conosce la risposta. E i confini scompaiono.

Get Back I Beatles e il lavorare in gruppo

Mi sto felicemente perdendo nel documentario sull’ultimo disco dei Beatles. Un manuale perfetto per creare capolavori. Get Back per lavorare in gruppo. E ci sto trovando tante similitudini con il processo creativo che stiamo facendo da quarant’anni con la Banda Osiris. Sincerità, lavoro duro, intenso e concentrato. Un’artigianalità paziente. Quanto vorrei potesse succedere a tutti quelli che lavorano in gruppo. Come un gioco che gioiosamente si ripete. Isn’y it a pity? Parlare dei Beatles non è facile. Tutti li abbiamo ascoltati gustati suonati. Ricchi, complessi. Difficili da suonare, sempre in loro c’è una sorpresa un accordo che non ti aspetti Quello che mi ha sempre stupito e mi stupisce ancora sono la quantità innumerevole di fotografie, belle, sono tutte belle le foto dei Beatles, una piû di quell’altra, e sempre diverse. Hanno sempre capito che la comunicazione di se stessi al di fuori del prodotto principale (il fare musica) è la differenza. E farlo con gioia, essendo se stessi, mettendo in gioco se stessi, scoprendo sempre qualcosa di nuovo di se stessi. Coinvolgendosi fino al midollo. È un caso che anche il gruppo di cui faccio parte sia di quattro persone che amano sconvolgere la musica, crearsi situazioni fotografiche sempre nuove, e lavorare insieme sempre come un vero collettivo. Anche se in una dimensione infinitesimale. E le modalità creative gestionali sono comuni. Vi parleró di tutto questo tra poco. Get back i beatles e il lavorare in gruppo.

Scarabocchi

Un manuale per migliorare le fotografie e uscire dagli schemi quindi gli scarabocchi per quando la fotografia non basta più. Vi parlo di gente che pasticcia le foto, lascia dei segni, le altera, insomma persone che le foto da sole non gli bastano più. E vuole dare più potere ai suoi scatti. Chi ci scrive sopra. Chi le commenta. Chi le deforma. E’ un bene la contaminazione? Aiuta, aumenta il significato? Dallo scrivere, annotare i luoghi, le date sul retro delle fotografie fino a farle commentare dai diretti soggetti, alterare le prospettive, intervenire sui profili, renderli liquefatti. Racconto di 5 fotografi che ci parlano di questo. Bisogna sempre avere il coraggio di sconvolgere, deturpare, modificare, aggiungere, specificare. Le fotografie sono un poco come i sentimenti, ci vuole coraggio per prenderne le distanze.

Fasciature, le garze, stropicci e altri segni

Alle ore 20,30 première Youtube sul canale bit.ly/robertocarloneyoutube.

Sotto le garze ci sono stropicci e altri segni. Quando si tolgono le fasciature si rivelano sorprese. Nascondono e proteggono, a volte rivelano. Stringono e ingabbiano. A ben conoscerle le garze si trasformano in seta, le ferite rinascono. Allora è possibile ogni cambiamento e le ferite aperte possono diventare ali. Un viaggio attraverso le coperture di Christo, la bellezza di Mapplethorpe, gli strappi della vita di Francesca Woodman, le mine di Giles Duley e la redenzione delle garze della Fracci raccontate da Lucia Baldini. Sempre fotografie e racconto legata dalla musica dal vivo.