Le finestre di Nan Goldin

Non ci avete mai fatto caso in quante foto di Nan Goldin ci sono delle finestre? E questo cosa vuole dire?

Ho fatto caso a questo particolare mentre preparavo lo scorso video dedicato alle finestre.

Quanto mi piace Nan Goldin!

Le sue foto, la somiglianza della sua storia con Vivian Maier (che conosco bene poiché l’ho studiata a lungo) e poi perché all’inizio lei presentava le sue diapositive proiettandole nei club londinesi con delle performance musicali, insomma erano degli eventi dal vivo (che conosco bene perché è molto vicino al mio modo di presentare le foto), cosa insolita per i fotografi.

LA SUA DIFFICILE MA SALVIFICA VITA – PRIMA PARTE

Nan Goldin ha undici anni.

Barbara, la sorella maggiore, muore suicida. E’ un profondo dolore per Nan Goldin. Il tema del suicidio e del delicato rapporto figli genitori, resterà una costante della sua ricerca.

I genitori si rifiutano di raccontare l’accaduto sia all’esterno che all’interno di casa convinti che questo li aiuterà ad superare il tragico evento. Così si ottiene proprio l’effetto opposto: Nan manifesta il desiderio di conoscere e parlare della verità, cosa che continuerà a fare per sempre.

Da giovane viene espulsa da diverse scuole per aver fatto uso di marijuana, vive in diverse famiglie affidatarie. Si iscrive alla Satya Commenti School di Lincoln. Poi si iscrive ad un’ istituto d’arte a Boston. Trasloca a Londra poi a New York, lavora e scopre i locali della sottocultura. La fotografia resta il suo punto di sicurezza e forza, compagna di risollevamento e analisi. Inizia a documentare i suoi luoghi prima in bianco e nero e poi a colori e con l’uso costante del flash.

Sperimenta con la fotografia, segue corsi di Henry Horenstein che le cambia la vita. Lui è un ex storico poi fotografo che diceva “Ho capito quasi subito che la vita di uno storico sarebbe stata piuttosto noiosa, mentre quella di un fotografo non lo sarebbe stata affatto”. Horenstein porta nella sua fotografia quello che gli studi della working class gli ha insegnato.

Quindi cerca e fotografa lavoratori le cui voci di solito non si sarebbero sentite.

Uomini che lavorano sodo e al contempo sognatori solitari. Un mondo dove gli uomini indossano magliette macchiate di olio dei motori, pantaloni da lavoro informi e scarpe pesanti. Oppure fa dei film che hanno come titolo “Partners, love comes in all forms”, l’amore si presenta in tutte le forme. di cui vi consiglio la visione. Link in descrizione.

Il suo messaggio era: Devi essere veloce, ma non c’è problema. Insegna a lei la cronaca diaristica della vita, l’idea delle istantanee, l’attenzione alla vita dei gruppi di giovani ribelli. Un segno indelebile.

LA VULNERABILITA’ E L’AMICIZIA DELLA FINESTRE DI NAN GOLDIN

“La fotografia è come un lampo di euforia… e mi ha dato una voce”.

Sono immagini spietate le sue. 

Le persone sono se stesse, legate nella vita, vicine. Eroi locali e quotidiani, punti di forza, riferimenti di un micromondo diffuso, una pletora di sperduti che non sapevano che fare mentre l’Aids iniziava la sua strage.

La fascinazione per quei piccoli mondi privati, protetti dalla luce di appartamenti, alberghi, villette. Ed e tutt’uno con quell’umano impulso di voyeur, che è un misto di poesia, di perversione, d’immedesimazione, di curiosità bonaria e di attitudine al ruolo di “spettatore”.

Le loro acconciature indisciplinate, i vestiti dimessi di casa, il lasciarsi andare. E lei è lì invisibile fotografa. Presente in quanto amica o convivente. Parte di quella casa, di quella situazione di quella comunità di sentimenti che stava pian piano manifestandosi. ma nascosta. Incasinata, presente ma tenuta nascosta dal perbenismo puritano della libera America.

comincia a usare la fotografia come un “diario pubblico”, riprendendo le sue coinquiline, amanti, amici. Qualcosa di molto vsimile ad un album familiare che poi diventa uno slide show diaristico musicato. Sesso esplicito e l’intimità, a volte violenta e aggressiva, della comunità di cui fa parte. 

Sempre finestre, tante finestre nelle sue foto. Di ogni tipo.

Il suo è un reportage intimisitico. Cerca di essere rispettosa dei soggetti e non scandalistica come per esempio Diane Arbus,

Il mio desiderio era mostrarli come un terzo genere, come un’altra opzione sessuale, un’opzione di genere. E mostrarli con molto rispetto e amore, per glorificarli in qualche modo perché ammiro davvero le persone che possono ricrearsi e manifestare pubblicamente le loro fantasie. Penso che sia coraggioso

La loro presenza è fortemente drammatica, ma serena e abbandonata. 

In un luogo sicuro, pieno di solidarietà e di amore, di fratellanza profonda.

Lei osserva.

Questo le permette di prendere le distanze, di rendere più distaccato il suo sguardo, per cercare di capire. Lei stessa dice che il suo diario di parole era molto più personale e le fotograie le permettevano di distaccarsi un poco di più, così potevano comunicare la vera situazione per poi condividerla.

Il suo è uno sguardo candido e affettuoso.

Con un’onestà senza fronzoli, Goldin non chiede al soggetto di entrare in contatto con la macchina fotografica. 

La fotografia è intima e rivelatrice, e cerca di catturare la realtà dei suoi amici in tempo reale. 

Sempre un glamour, un tocco, nelle sue foto.

Ha scattato candid foto dei suoi amici e amanti. Personaggi che spesso vivono ai margini della società. Molte delle immagini di Goldin sono come voci di un diario; registrano elementi intimi della sua vita quotidiana e delle sue avventure.  

INTERMEZZO E ANALISI

Cosa possiamo fare? esserci, dirlo ad altri, con dentro una speranza.

Non è come Letizia Battaglia che presentava l’ineluttabilità dei “morti ammazzati” come li chiamava lei. Nan Goldin ce li presenta vivi, ai limiti, densi anche loro come i colori delle sue foto. Che svelano umanità.

Vedete è come con Vivian Maier, famiglie che hanno distrutto le persone. Questo è un dato comune tra loro. 

Madri vittime, perdute, ma che nonostante tutto hanno provato a fare le madri, a proteggere come meglio (o forse è più giusto dire “peggio”) potevano. Che hanno tirato fuori la loro animalità istintuale di portare i figli al giorno dopo. 

Nan Goldin, Vivian Maier non hanno pensato alle conseguenze delle loro foto. 

Vivevano quella vita, quegli istanti. 

Vivevano e fotografavano. 

Erano loro stesse dentro ad un disastro di vita. 

Non lavoravano pagati da qualcun altro per parlare dei disadattati, del circo da spettacolarizzare (non volevano, come altre fotografe e fotografi, che avevano capito che del disagio altrui ci si può vivere, arricchire, vivere alle loro spalle).     

Nan Goldin è stata capace di trasformare la loro vita e il materiale intorno a loro

in una potenza profonda per il mondo. Ed è raro per l’arte.

Dice una cosa bellissima: quando ho cominciato a condividere (e guardate dice condividere e non mostrare!) perché l’arte è una tappa di un processo profondo, di una ricerca assillante, dentro se stessi, nel mondo che ci circonda. Così tutti questi ragionamenti, sofferenze, illuminazioni convergono in una foto, in un disegno, in un film, solo così diventano potenti. Sono una tappa finale o intermedia di un processo di approfondimento 

che va molto in profondità, 

che obbliga ad interrogare se stessi, spiazzare dubbi, fare sorprese, 

scavare ferite. 

E ad un certo punto si arriva a condividere il proprio risultato, 

non a mostrarlo per urlare: guardatemi! , ma “guardate cosa succede nel mondo, che  si è mio ma riguarda tutti, i nostri occhi disgraziatamente e apertamente chiusi”. Eyes wide shut. 

Insomma diceva “quando ho cominciato a condividere il mio lavoro ho incontrato davvero una forte resistenza soprattutto da uomini galleristi e artisti che hanno detto che questa non era fotografia, nessuno fotografa la propria vita.

Questo non finirà bene” che è il titolo del film premiato a Venezia.

FINESTRE ANCORA

E’ una cosa gigante contro cui mettersi, 

la vita. 

Una vita felice e piena di colori. 

Come le sue foto: piene di colori! Saturi, densi, bui nelle ombre, ma vivi. 

I suoi bui, interni sgangherati.

Le sue immagini intime pongono l’accento sull’individualità dei soggetti, e gli infondono dignità ed empatia piuttosto che sulla loro sessualità o alterità.

Non è sensazionalistica o pornografica ma fotografa un flusso della vita, ampio e complesso. C’è sempre tatto e riservatezza, empatia. Vorrei aggiungere che c’è sempre un glamour, un tocco, nelle sue foto.

Poi, poco tempo fa ha dichiarato: “Il mio lavoro tratta semplicemente della condizione di essere umani, il dolore, la capacità di sopravvivere, e quanto sia difficile tutto ciò. Non c’è differenza, siamo tutti dei corpi. Vicini. Amore e rispetto, per glorificare i devianti perché ammiro le persone che possono ricreare loro stessi e manifestare le loro fantasie in pubblico.

Joey si appoggia delicatamente allo schienale di una sedia, con il petto nudo ed esposto all’esterno. L’espressione di Joey verso il basso è parzialmente nascosta dalla sua voluminosa frangia, che contribuisce alla sua presenza enigmatica e al suo continuo fascino.         

Un’inquietante scena di camera da letto illuminata da una finestra aperta. Gli interni di Goldin emanano una quieta contemplazione, pur conservando la sua caratteristica inquadratura e foschia fuori dal comune. Il contrasto e il colore eclissano uno stato d’animo o una narrazione chiari. Questa fotografia ambigua ritrae un cuscino bello gonfio in attesa su un letto solitario coperto da un lenzuolo sottile. 

Questo spazio è un rifugio o una cella? 

Gli interni di Goldin invitano lo spettatore a costruire una narrazione: perché si trova lì e quali segreti nascondono le pareti. L’unica presenza umana qui è suggerita da ciò che è stato lasciato dentro la stanza.

Le foto sono un invito ad entrare in questo mondo.

Stanze vuote, che risuonano di liti, amore, promiscuità delle foto precedenti.

Provvisorietà, pochi segni di presenza. E sempre, sempre finestre.  Più vuoti che pieni, non c’è spazio per fronzoli o ricchezze.

Su questo tema, quello delle case in cui si vive mi sono provato a lungo, soprattutto durante la quarantena della pandemia. Ho anche preparato un e-book sulle foto del mio appartamento.

In bilico tra voglia di autonomia e bisogno di dipendenza (e quanto è vero nella nostre vite)

Le sue immagini hanno sempre il senso di una scoperta, le finestre sono una via di fuga, una fonte di sicurezza e di luce. 

Registrare e raccontare tutto ciò che ha a che fare con lei, esattamente come è. Per salvarlo dal tempo. E denunciare, mostrare.

I’ll be your mirror (Lou Reed) 

Sarò il tuo specchio / rifletterò quello che sei / nel caso non lo sapessi / sarò il vento, la pioggia e il tramonto / la luce alla tua porta / per dire che sei in casa

Nan Goldin vive nella parte trasgressiva della città,  nella parte trasgressiva della nostra mente.

Credo – ha scritto lei stessa – che uno dovrebbe creare da ciò che conosce e parlare della sua tribù… Tu puoi parlare solamente della tua reale comprensione ed empatia con ciò di cui fai esperienza.

Molto, molto simile a Vivian Maier.

TUTTO SCORRE E SI TRASFORMA: UN NUOVO MONDO VERSO LE FINESTRE

Si cambia, si capisce, con un duro lavoro su se stessi e con il tempo dei giorni che passano, si fa pace. Si capisce. E tutto si schiarisce, lo sguardo si apre.

Da tempo, mentre si curava dalla dipendenza da droghe e alcool, scopre che è proprio un medicinale che crea dipendenza dagli oppiacei e porta alla morte. Da riparte una battaglia giusta e feroce.

«ll nostro primo obiettivo è stato la filantropia tossica della famiglia miliardaria Sackler, che ha innescato l’epidemia di overdose di oppioidi con il loro farmaco di successo, OxyContin. Abbiamo smascherato le istituzioni che sono state complici nell’accettare le loro donazioni per anni e, attraverso l’azione diretta, abbiamo spinto con successo molti musei e università a rifiutare i finanziamenti Sackler e tagliare i legami con la famiglia.

Guardate come le stanze accettano le finestre, la luce si ammorbidisce. Le stanze si svuotano. C’è maggior ordine. Libertà anche negli interni.

Sono Nan Goldin…, delle volte

E ci dice “e guardatele le mie foto di adesso”, guardate dalle finestre, aprite lo sguardo, sognate la vostra vita, state accanto a chi guarda lontano. Aiutate e proteggete i loro sogni. Essere grati e scusarsi sono la base di una amicizia di una fratellanza. La mancanza di comprensione è una grande malattia di questi tempi.

Tutto si basa su una famiglia con piccole aspirazioni, chiuse, fatte di mariti, mogli e figli e così si dimentica l’amicizia, la solidarietà il bisogno degli altri. Le “famiglie di sangue” di Nan Goldin ci dicono proprio l’opposto, per questo ci sono anche tante finestre nelle foto che ho scelto, e non ho avuto difficoltà a trovarle, perché fuori c’è sempre un mondo, una luce, una speranza, il confronto.

FINALE LE FINESTRE ESISTONO PER SALTARE FUORI

Trovo difficile credere che tu non conosca

la bellezza che sei.

Ma se non lo sai, 

lascia che io sia i tuoi occhi

Una mano per la tua oscurità 

così non avrai paura.

Ma alla fine da quelle finestre lei ci esce, 

si butta 

e scopre che esiste la felicità.

Honda Brothers In Cherry Blossom Storm: cercatela qui. I fratelli Honda nella tempesta dei ciliegi in fiore. 

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Le fotografie sono finestre

La finestra che ha dato inizio alla creazione del mio spettacolo su Vivian Maier è stata quella di intrufolarmi in una sua foto, l’ho abitata, incredibile sacrilegio. Da lì è stato un continuo ragionare sulla fotografia come finestra, una finestra portatile. Guardare, curiosare, analizzare. Le finestre di Jean Loup Sieff, Rodney Smith, Shizuka Yokomizo, Giorgio Barriera, Michael Wolff, Keichii Tahara e Vivian Maier, oltre alle mie, ci accompagnano in questo viaggio. Usare le finestre per guardare fuori oppure lasciare entrare dalle finestre: il mondo, i suoni , la luce. Lasciarsi guardare e guardare attraverso, questa l’altalena del nuovo video.

Bentrovate e bentrovati. Il titolo di oggi apre e forse anche chiude. A cosa servono le finestre? 

Prima finestra, la mia. Grazie alla pioggia e al restare in casa.

Ecco la foto che ha dato inizio alla mia ricerca. Ci sono foto che non puoi fare a meno di scattare. Telefonino e via. 

La finestra che ha dato inizio alla creazione del mio spettacolo su Vivian Maier è stata quella di intrufolarmi in una sua foto, l’ho abitata, incredibile sacrilegio. Vi faccio vedere.

“Da qui controllo tutto, vedo tutto, l’edicola è un osservatorio, è la mia finestra sul mondo. Qui vendo il mondo mentre loro osservo.”

Questa è la mia idea di fotografia: c’è tutto quanto, tutto quello che penso sulla fotografia: è una tendina che si apre, questo succede anche nelle macchine fotografiche. Una tendina che si alza e fa passare la luce. Si alza il sipario, si va in scena! Ci si apre alla luce per una manciata di centesimi di secondo. E fuori ci sono io che guardo il mondo. La fotografia è una grande finestra. In più ha il vantaggio di essere mobile, possiamo portarcela dietro, possiamo decidere cosa farci entrare e che cosa lasciare fuori. 

Succede sempre che quando vado nelle case sconosciute di amici oppure di conoscenti, alle feste, quando entro in un ufficio, la prima cosa che faccio è affacciarmi alla finestra. Non so perché però guardare, curiosare, scoprire un punto di vista che non sia il mio solito mi affascina. 

Il primo ricordo di questa sensazione fu quando andai dal mio amico che abitava al piano di sotto.  Ero piccolo, avrò avuto 6, 7 anni, lui abitava esattamente sotto di noi.  Mi affacciai e dalla sua finestra vedevo un’altra cosa, un’altra città, un  altro mondo. La posizione era la stessa ma alcuni dettagli non c’erano più, altri erano più marcati come se ci fosse stata una distorsione.

Ho fatto un viaggio in america. E’ quello che vi ho appena raccontato. Entrato in hotel, affacciato alla finestra e scattato. Immediatamente. E’ poi è diventata il manifesto di una mostra, si intitolava “Paesaggi parziali”. Essere parziale, con la mia fotografia non posso essere assolutamente oggettivo ed imparziale. 

Quello che da fuori arriva dentro. Luce, libertà. Altri suoni, silenzi. Vi farò vedere non tanto quello che dalle finestre si vede, si spia, ma quello che entra dalle finestre. Luce il più delle volte. Perché le finestre non sono fatte solo per guardare fuori ma sono fatte perché qualcosa entri. Il mondo per esempio, l’aria, la luce, i suoni.

Senza francobollo 15 – La dispensa nella foresta

Ciao a tutte e tutti.

Bentrovate bentrovati alla blogletter settimanale di Roberto Carlone. Senza francobollo numero 15. Venerdì 28 ottobre 2022.

Questa blogletter la trovate in versione normale su Substack o qui, in versione video su YouTube, su Facebook, in versione audio sul podcast. Se non siete ancora iscritti vi consiglio vivamente di farlo in modo da riceverla nella vostra casella di posta elettronica ogni settimana.

Passeggiata nella foresta con il pretesto del foliage, e quale pretesto. Una giornata intera nel Parco Nazionale delle foreste Casentinesi Monte Falterona e Campigna. Da prato alla Penna al rifugio di Fangacci. Vi porto un poco con me in questa meraviglia della natura.

Dicono sia un tratto tra i più belli da percorrere a fine ottobre. Uno va a fare una passeggiata e fa scorta di ossigeno, viste, fotografie, speranza e poi le mette tutte in dispensa per i giorni bui a venire. Si riconnette con il mondo, con se stesso, capisce e si immerge nella vastità e nel mistero più profondo.

Oltre che a mantenere il corpo in movimento perfetto allineandosi con il ritmo dettato dal terreno salite e discese incluse.

Lo dice David Le Breton nel sui libro “Camminare. Elogio dei sentieri e della lentezza

“Il camminatore può far cadere le sue eventuali maschere, perché sui sentieri nessuno si aspetta che interpreti un personaggio. E’ anonimo, senza altro impegno oltre a quello di vivere l’istante che viene, di cui lui stesso decide la natura. Il cammino è un esperienza provvisoria di assenza di gravità delle esigenze della vita collettiva”.

Uh! Devo dire che al ritorno il tratto in salita bello ripido ha attivato tutta la forza di gravità, altro che assenza. Per fortuna che avevo due macchina fotografiche che mi “obbligavano” a piacevoli soste per ascoltare ed immergersi e in quella solennità silenziosa, per capire i giochi di luce, i colori imperanti, le sfumature sottili per restituirle in fotografie dopo averle fatte passare al vaglio dell’artista che si risveglia inevitabilmente in noi. Scatti meditati, scelti. La bellezza del scegliere. E scegliere quello che più ci tocca, quello che ci suggerisce un tronco o un mucchietto di foglie.

E fare lo slalom tra i tronchi con lo sguardo che cerca un orizzonte, oppure lo slancio verso i cieli.

 E scattare anche in bianco e nero per cercare segni, disegni, forme, linee, intrecci. Leggerezze.

Non solo un alfabeto da decifrare ma un romanzo o una sinfonia.

La natura vince e pensando a quei luoghi adesso sapere che sono lì soli, soli nella luce o nella notte, vivi e fermi, monumenti. Qull’albero che mi si è offerto allo sguardo, quel muschio o la miriade di funghi, sono adesso là a parlare al mondo, a essere a diffondere confusione e bellezza, trasformazione in una festa i colori che dura pochi 


Questa settimana ho pubblicato “Una caffettiera nell’universo

sul Canale YouTube, pare sia piaciuto moltissimo ha fatto il record di visualizzazioni da quando ho cominciato a pubblicare.

Cosa ci sta a fare una caffettiera nell’universo? Ecco sono partito dalla canzone dei Beatles “Across The Universe” e ho giocato con piccolo nuovi esperimenti visuali, gravità quantistica e sanscrito. L’esperimento è stato inserire un frammento di un immagine creata on l’Intelligenza Artificiale, un pianeta rosso rotolante nel nero. L’intelligenza artificiale ci permette delle cose, ci fa risparmiare tempo e se la si riesce a domare per i nostri desideri e necessità è di grande aiuto, diciamo che è una mano in più per questo autarchia-autismo, prolunga di noi stessi per espandere i propri limiti e creare in autonomia. Ho anche suonato tanto, più del solito, sto cominciando a prendere confidenza anche con questa parte, e mi diverto perdendomi in improvvisazioni lunghissime che fortunatamente taglio. I capitoli in cui è suddiviso il video parlano della storia, della canzone, dell’universo e si chiudono con la domanda, quella con la D maiuscola. Niente spoiler, andate a guardare il video, appena finito di gustarvi questa newsletter.


Domenica passata sono stato a FotoAntiquaria, una mostra mercato scambio di macchine fotografie d’epoca. E non ho resistito e mi sono preso un gioiellino. Una Rollei 35 TE. Una macchina fotografica a pellicola che è un gioiellino. Anno di nascita 1961. Corredata con il top della tecnica e della meccanica, che tuttora è ineguagliabile. Microscopica. Praticamente una macchina costruita intorno alla pellicola 35 mm. La usavano Stanley Kubrik, Andy Warhol, Kurt Diemberger, Luke Wilson nel film di Wes Anderson e la Regina Elisabetta che la portava sempre con sé nei suoi viaggi.

 

Per chi fosse incuriosito vi lascio un link di un bellissimo articolo di Stampa Analogica


Per il futuro vi dico che sto girando per le città di notte che sto preparando un nuovo video con un tema urbano. Tinte forti e bianco e nero strong. E poi che sta per arrivare un evento live, uno dei miei spettacoli on line, la data prevista sarà con due repliche nella settimana centrale di Novembre.


Dalla prossima newsletter cambierà il server di sostegno della blogletter e ci sarà la migrazione verso Substack, una piattaforma formidabile di notizie, quindi cambio di impaginazione e una interfaccia un poco più social e aperta. Mi sa che farò un test in beta già con questa. Se volete dare un occhiata c’è il link in descrizione XXXX


LA musica la musica la musica che vi consiglio questa settimana sono i The Cure con “A Forest”

Vieni più vicino e guarda, guarda dentro gli alberi, trova la ragazza, mentre puoi vieni più vicino e guarda, guarda nell’oscurità, segui i tuoi occhi, segui i tuoi occhi

Vi saluto e vi lascio un bacio,

Ciao

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Tra alberi, fiori e una città utopica

La settimana passata e una interessante novità sperimentale.

Grandissima novità questa di oggi  infatti viene pubblicata in 3 versioni audio (che trovate su Spreaker dove), video (che trovate su YouTube e Facebook dove), e naturalmente in versione mail che potete trovare su robertocarlone.it alla pagina newsletter,. Se vi iscrivete riceverete anche un piccolo saluto con una breve storia in esclusiva ed ogni settimana arriverà nella vostra casella di posta elettronica.

Oggi piove ma niente ci fermerà. 

Di seguito la versione video.

Per il periodo pasquale sono stato ad Alvisopoli, piccolissimo borgo del veneto orientale. Una utopia settecentesca. Alvise Mocenigo decise di creare una città ideale del tutto autosufficiente. Costruì case per gli abitanti che seguivano attività agricole all’avanguardia, coltivazioni di barbabietole e riso e attività tessile, con una risiera, il mulino e la fornace, due scuole, una chiesa, una tipografia e produzione di miele. Il motto era “Utile Dulci” e il simbolo un’ape. Una storia che guardava al futuro che finì con la morte dell’ultimo discendente della famiglia.

Tutte le mattine con qualsiasi tempo facevo i miei 6 chilometri di camminata mattutina di cui vi faccio vedere alcune foto.

La prima mattina un grandissimo vento freddo ma il susino fa ben sperare e infonde forza, ce la faremo! E appena passato il cantiere dell’autostrada, (mamma mia quanti disastri per il benessere…)i campi arati e il sole in controluce continuano a spronarci.

La tavola di pasquetta apparecchiata da Sandra con l’aiuto di Giuliana è un florilegio regale. Per accogliere un magnifico, delicato risotto ali fiori di tarassaco. Campeggia un gigante Iris carnoso, la foto verrà poi usata da Deborah per la campagna di pubblicità del bar di Mocenigo per il ponte del 25 aprile (tra l’altro anche festa veneta per il giorno di san Marco). Vedete una foto da aperitivo, con la barchessa della villa di Alviisopoli capovolta. Per chiudere la serie una foto scattata la sera di ritorno dal recupero vetro. Bisogna essere sempre pronti a cogliere le suggestioni che ci arrivano. Tutte le foto sono state scattate con un vecchio iPhone SE e leggermente leggermente trattate.

Il video su YouTube “Fiori Come lo sfiorire diventa arte” sta andando fortissimo, sarà il cambio di giorno della première, sarà la vostra fantastica curiosità, ed un buon impegno da parte mia che le visualizzazione sono state più di 170 in due giorni, un record per il canale. Quindi ne consiglio la visione se ve lo siete perso, visto che è un omaggio floreale alla primavera. 

Luca mi scrive “Me lo sono gustato in ritardo, come se l’attesa stessa sia una componente fondamentale del progetto. Ammetto di non aver mai legato lo ‘sfiorire’ ai fiori…e sì che con le parole amo giocare…geniale, intimo e delicato. 

Tanta é l’intimità che crei che passare al tu viene spontaneo, le associazioni personali mentre ti osservo e ascolto, apre un kaleidoscopio di ricordi sopiti, dimenticati. Altri me che in me convivono sotto pelle. Che bellezza!!!” E non posso che esserne felice, ve lo riporto per invogliarvi non di certo per vanagloria.Trovate il link.

La novità per la settimana prossima è che sto preparando il video successivo ed è dedicato interamente agli alberi. Partirò da una breve lettura del “Barone rampante” di Calvino per passare foto di Ansel Adams e Tod Hido senza scordare Joel Meyerowitz e le splendide donne Beth Moon, Nan Goldin e Vivian Maier. Martedì 

26 aprile la première alle 20,30. Lì potremo condividere i commenti in diretta, naturalmente vi aspetto.

E come sempre vi dico la musica che ha accompagnato la stesura di questa lettera, la compositrice è Agnes Obel  e il brano Under Giant Trees. 

Naturalmente nei miei video la musica di sottofondo è quella che creo da me al mio pianofortino che in questa occasione direi che si trasforma in un “Pinofortino”.

Buoni alberi a tutti, guardateli, ammirateli, proteggeteli, fotografateli e fateli crescere. 

“Certi alberi stanno, pazientemente” come ci suggerisce Mariangela Gualtieri.

Ciao, un bacio, e alla prossima.

Vivian Maier e il cinema

Vivian Maier, un manuale perfetto per rubare l’intimità con il cinema.

Il cinema e i filmati sono basilari per studiare Vivian Maier. Aiutano a far capire dove il suo occhio cadeva, come sceglieva le persone da fotografare, come catturava le sua prede fotografiche lo si vede bene nei suoi film. Nella fotografia di strada riusciva sempre ad entrare in contatto con uomini, donne, anche bambini. Con loro si stabiliva una sorta di intimità immediata e sceglieva un istante favorevole per quel che voleva dire e voleva mostrare.  In questo video ci sono le testimonianze di due sue compagne di scuola quando frequentava la elementari in Francia e il racconto di uno studioso dell’Association Vivian Maier et le Champsaur. Tutte informazioni che son state fondamentali per costruire il mio spettacolo “Gli occhi di Vivian Maier, i’m a camera” che porto per i palcoscenici europei e anche nelle case private di cui presento una piccola scena il Film Center. Lo spettacolo l’ho presentato nel Cinema di Saint Julien en Champsaur che era frequentato da Vivian Maier durante i suoi soggiorni francesi.

Vivian Maier e il cinema. E non ve lo aspetterete ma andiamo in Francia. Nella zona della Hautes Alpes, Champsaur. Dopo Briançon, c’è Gap. Sulle montagne di fronte.

Ho scritto uno spettacolo su Vivian Maier che abbiamo presentato in Italia, Francia e Svizzera. Allestito due mostre e scritto un libro sulla grande fotografa. Insieme a Caterina Cavallari continuiamo a studiare la sua opera cercando di darle dignità come fotografa e come donna.

Siamo a Saint Julien en Champsaur. Quella è la zona della famiglia di Vivian Maier. I Jaussaud.  Ci siamo stati parecchie volte per le ricerche su di lei. Son bellissime zone. E piccoli paesini semplici ma ricchi, in particolare di persone splendide e accoglienti. Vivian Maier ci è vissuta in due momenti della sua vita. Durante il periodo della scuola d’obbligo, quando ci venne dall’America con sua madre e poi agli inizi degli anni cinquanta, poco più che ventenne e già con una voglia di fotoografie di cui vi parlerò, Curiosa e assetata di notizie e di cultura. Nella piazza di Saint Julien en Champsaur ho conosciuto  due compagne di scuola dei tempi di Vivian. Quindi è realmente esistita, smentendo tutti i dubbi sulla sua non esistenza, il creare confusione introno alla sua figura e decidere a senso unico  cosa lasciar trapelare e cosa occultare o più semplicemente inventare  una storia senza fare ricerche approfondite.  E su questo ci sarebbe da dedicare molte ore di argomentazioni. Insomma nella piazza parliamo di lei  di come si divertisse a scivolare sulla neve  nella strada principale  o come restasse ore e ore a guardare incantata  il mercato dal balcone di casa sua. 

Marinette Reboul ci racconta “Ho conosciuto Vivian, ma ero tanto giovane! meriterebbe fermare il tempo delle volte! Ha vissuto qua con la mamma.  Mi ricordo della scuola.  Lei era avanti di due anni.  È diventata famosa, ci sono stati articoli dappertutto.  Fotografa eccezionale.  Ha fatto delle foto meravigliose.  Ha fotografato delle cose inattese.  Fotografie che non sono abituali. Era alta, fisicamente non era male. Giocavamo a campana, era formidabile! Qui nella piazzetta. E quando c’era la neve scendevamo sul corso in discesa, lo facevamo tutto fino in fondo con lo slittino!”

Oppure di come non fosse contenta di partire per il suo ritorno in America nel ’38  dopo aver frequentato tutto il ciclo delle elementari in Francia pressochè in una bellissima campagna,  libera e senza pensieri.

Così ci racconta Lea Anselme. “Viveva un poco ritirata,  non era timida ma parlava poco. Era molto riservata. Non raccontava niente della sua vita. Era riservata. Non era scontenta, era riservata e quindi  il dialogo era difficile con lei.L’altro giorno sono stata dal dentista e ho visto delle sue foto su una rivista. Foto magnifiche. Me la ricordo quando era sul suo balcone  e guardava incantata la fiera. Mi sembra che non era contenta di partire per l’America. Mi sembra proprio che non voleva. Mi chiedo ancora se fosse davvero contenta di andarsene. È stata obbligata. C’era qualcosa che non la rendeva felice. Non era per sua madre. No, suo padre non l’abbiamo mai conosciuto. Era sempre alla ricerca di qualche cosa.”

In questa piazza c’è un cartello inchiodato sul tronco di un albero E sorprende in un paesino così piccolo ci sia una sala per le proiezioni. Ci raccontano si tratti di un piccolo teatrino. In quel teatro Vivian Maier ci andava durante il suo soggiorno francese. Soprattutto negli anni tra il 50 e il 52,  quando aveva 24 anni  e si era già inserita nella vita americana d New York. Bene il teatro è ancora funzionante, tutte le settimane apre,  c’e un circolo che organizza un cineforum. Insomma è tuttora attivo.  La stradina è stretta. Andiamo a vederlo. Semplice, artigianale. Col tempo, dopo le nostre frequentazioni, con gli amici dell’Association Vivian Maier et le Champsaur che stanno facendo un lavoro di ricerca e di ottima cultura sulla fotografa ci invitano a presentare lo spettacolo proprio lì. Quando è tutto pressochè deciso Allora ci andiamo per un sopralluogo. Una delizia. Un centinaio di posti. Un piccolissimo palcoscenico.  Tutto un poco cadente, provvisorio ma pieno di fascino. Allora ci mettiamo in moto per lo spettacolo, la traduzione, imparare il testo  e soprattutto la pronuncia  che va curata, raffinata. Finalmente vengono i giorni della rappresentazione. Si allestisce la rappresentazione e il montaggio di tutto il materiale, a malapena ci entrano il proiettore, che non può entrare dietro lo schermo di proiezione, ma l’emozione e la voglia sono alle stelle. Alla fine il pubblico arriva e si può dare inizio allo spettacolo. Tre repliche. Alla fine di ogni rappresentazione il dibattito, vengono anche i suoi compagni di giochi. Emozione fortissima! E’ un evento anche per la cittadina. Così come è stato quando hanno fatto l’esposizione di fotografie donate al comune da John Maloof e i soggetti ritratti si sono riconosciuti e si sono ricordati di quella scriteriata che andava in giro con due macchine fotografiche e scattava chiunque e ovunque, dai funerali agli eventi, i parenti e le amiche.

Continuiamo con il cinema e Vivian Maier Poi Vivian ritorna in America e si stabilisce a Chicago. Ci sono diverse testimonianze di persone che conoscono Vivian. Lei frequenta attivamente la vita culturale della città.  Cinema, teatri, biblioteche e università. Frequenta alcune lezioni ed interviene sempre con domande. Spesso si reca al Film Center, Una sala di film sperimentali,  il direttore è Jim Dempsey  che dichiara che quando lei gli parlava gli stava così vicino che sperava non ritornasse più. Ci sono stato quando sono andato a Chicago. Nel viaggio-studio per verificare i luoghi della sua vita ed alcune fonti. Ho fatto alcune foto  e nella scena dello spettacolo in cui racconto impersonando il personaggio di J., una sintesi dei diversi ricercatori della fotografa al quale è affidato  il compito di raccontarci i momenti storici  e cronologici della sua vita, racconta della frequentazione della Maier agli eventi culturali. 

A proposito di Cinema e Vivian Maier sono importantissimi i suoi filmati. Filmava in super otto e sedici millimetri. Interessantissimi. Andava in giro con a tracolla a volte una solo  a volte con due rolleiflex  e anche una cinepresa.  In quelle pellicole c’è molto da capire. Secondo me ci sono i veri occhi, si scopre cosa lei guardasse davvero,sono come degli studi, degli abbozzi.  Si capisce cosa cercasse delle persone.  Sono proprio la testimonianza  di dove cadesse il suo sguardo cosa le interessasse davvero. Si fissava su di un particolare, non gli staccava gli occhi di dosso.  Sapeva individuare le persone particolari,  sembrano i filmati di una caccia grossa. Aveva un occhio magico. Sembra una fotografa istantanea. Ce l’hanno sempre presentata come una persona compulsiva, una sorta di serial killer della fotografia, che impazziva se non scattava, ma secondo voi chi non è così dei grandi (o piccoli) fotografi? Di ogni appassionato di questa pratica? Abbiamo abbastanza questa idea. Scatti, scatti scatti in continuazioni, frenetici, era malata,compulsiva, click, click, click in continuazione. Ma attenzione, lei guardava prima, seguiva, braccava la sua preda con attenzione. Con tenacia e cura e circospezione. Certo poi se ne andava. La pensiamo… come un gatto.  Tin tin tin si avvicina stile cartone animato, nascosta,  furtiva, click e via.

Su di questo ho scritto una mezza paginetta nel libro. Si intitola “L’autre Vivian, un viaggio inedito nella Francia di Vivian Maier”  e riporta molte interviste, ragionamenti e ricerche sulla grande fotografa. Nel brano che vi presento parlo un poco di fotografia. E sono quasi parole che attribuisco a lei. Ve la leggo.

“Veloce non significa affrettato. La velocità si avvicina alla rapidità, ha qualcosa di animalesco è una dote fondamentale per un fotografo, si deve avvicinare anche silenziosamente, deve dominare la situazione, deve essere reattivo, deve prevedere, deve impostare i parametri della macchina fotografica. Affrettato è usato troppo spesso come sinonimo ma significa ben altra cosa, una fotografia affrettata non è pensata, non nasce da un bisogno, da uno stupore, da una ricerca, accade, è molto simile al termine “di sfuggita”, sa di animale in fuga, quando si avvicina fa disastri, è dominato dalla situazione,  sa reagire perché scatta, quello che viene viene, magari avrò fortuna. Vivian Maier sicuramente in questo senso amava la velocità. Veloce, mai affrettata”

Questa è un poco la nostra malattia, essere veloci, soprattutto e troppo con le fotografie.

Ma torniamo ai filmati super otto. Perchè ce n’è uno splendido. Sapete, lei faceva la bambinaia e ha seguito per tantissimo tempo  i 3 figli della famiglia Gensburg. Si affeziona tanto a loro.  E loro a lei, così tanto che saranno loro  a prendersi cura di lei quando invecchia,  loro trovano per lei un’appartamento al Rogers Park di Chicago Ci sono stato.

A Chicago c’è un lago enorme, il lago Michigan L’orizzonte è sempre acqua, come il mare, dall’altro lato c’è il Canada. Insomma in questo parco, un piccolo parco ci sono arrivato. Ed arrivarci è un’esperienza  La fermata è soprannominata “The Hell”, l’inferno. Scendo e capisco immediatamente,  poichè ero solo,  che la prima cosa da fare è ritirare la macchina fotografica,  nasconderla per bene. Arrivo nel parco e trovo la panchina dove lei sedeva per ore e ore  a guardare il lago,  la gente. E’ un piccolo parco. Molto molto carino. Qui i suoi bambini i tre figli Gensburg la aiutano a sopravvivere e un poco la seguono. La aiutano a trovare casa. E a proposito di loro il film più bello è quello del campo delle fragole. Un grande campo dove Vivian li accompagnava sempre. Era il loro preferito. Una sorta di giardino segreto. Luogo di giochi. Si dice che lì i fratelli abbiano disperso le sue ceneri. Insomma: c’è il filmato di questo campo. Probabilmente uno di loro, o un loro amichetto si impadronisce della super otto di Vivian e li filma.Da qui si capisce anche come lei si dedicasse loro. Una tata ideale,  una splendida zia quasi.

E vorrei chiudere con l’arte del cammuffamento. Potremmo intitolare questo capitolo finale. Il cinema è l’arte ideale del cammuffarsi, come il teatro.Vi riporto le parole di Gaston Gay  un membro dell’Association Vivian Maier et le Champsaur ce ne parla.

“Questo “camouflage” penso nel vestire nell’essere di non parlare le permetteva di rubare la loro intimità delle persone di prendere sul vivo non so se di dice un istante il più favorevole per quel che voleva dire quel che voleva mostrare  Li prende nel vivo.  Un istante, il più favorevole per quel che voleva dire. Voleva mostrare.  Ha fatto un lavoro fantastico in America: mostrare la vita della gente  sia povera sia ricca,  sia giovane sia vecchia  e questa testimonianza storica e sociologica  prova che questa signora che per me è una  signora, ma una donna prima di tutto,  e dunque una signora, perché aveva una visione universale, una visione moderna. Voleva mostrare a tutti le qualità ,ma anche tutti i difetti della società americana.  Lei andava nei quartieri poveri, pericolosi e questo “camouflage” nel vestito nell’apparenza di una donna senza essere troppo donna le permetteva di prendere queste foto, rubate, e di non essere disturbata dagli uomini e dalla gente.”

Ecco questa era Vivian Maier e il cinema.

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Grandi fotografi in Francia – Roberto Carlone

Grandi fotografi in Francia. Un manuale per viaggiare tra luce e fotografia, legami, diorami e la nascita della fotografia.  Se non conoscete Gilbert Garcin un fotografo molto particolare, molto divertente,  per certi aspetti molto ai margini, surreale e veramente artigiano, allora questo viaggio tra i fotografi in Francia ne vale la pena. Vivian Maier in Francia aveva le sue radici, la sua famiglia e ci ha passato la sua infanzia scolare e poi ci è tornata quando aveva 25 anni. Lì c’è la sua sete di infinito, i suoi spazi aperti e il suo paesaggio interiore. Ci nasce la fotografia in Francia e la traduzione che loro danno è molto più stimolante di quella che ci raccontano di solito.

Oggi andiamo tutti insieme in Francia, andiamo a vedere un poco cosa succede da quelle parti. E perchè. Sono molto legato alla Francia per svariati motivi. Estetici ed artistici. 

Francia dunque. Lì ho scoperto una grande umanità e il sapore della storia che si manifesta in tutti i piccoli paesi, in una sorta di continuità architettonica che è stata voluta preservare fin dagli anni ’60. Queste storie vogliono parlarvi dei LEGAMI che ci sono tra gli avvenimenti. Bene. Oggi il fil rouge che ho scoperto è la Francia. C’è un personaggio, un fotografo molto particolare, molto divertente,  per certi aspetti molto ai margini e soprattutto anomalo. La cosa che mi interessa, lo avrete capito, sono le persone un poco ai margini che stanno un po fuori dai riconoscimenti categorizzati, eretici. Lui si chiama Gilbert Garcin. Mister G.

Francia n.1 La fotografia ci nasce. E facciamo una premessa.

La Francia è un poco la patria della fotografia, è stata la madre della fotografia. Lo sappiamo tutti quanti che la fotografia nasce lì. Arriva alla fine di un processo di ricerche che stava diffondendosi in Europa.  Ma il padre riconosciuto della fotografia viene ritenuto Luis Mandè Daguerre che nasce nel 1787 e muore nel 1851, la prima fotografia porta la data del 1839. Viene stampata su una lastra ricoperta di argento e con un a serie di procedimenti chimici si manifesta. Parallelamente a lui sta facendo degli esperimenti anche William Talbot con i suoi disegni fotogenici. Lui invece stampa a contatto delle foglie, delle chiavi, quello che ancora adesso si fa nelle scuole su una carta sensibile, e queste sono le due strade che vanno parallele.

 Francia n. 2 Gilbert Garcin

Ora ve lo presento è questo signore. Purtroppo è morto poco tempo fa, a 90 anni. Lui è stato un fotografo, diciamo, quasi per caso. Nel senso che  pare non avesse mai fotografato nella sua vita fino a quando non va in pensione. Per passare il tempo e vincere la noia si mette a fare fotografia. Lui prima faceva l’imprenditore e costruiva lampadari per appartamenti quindi ha passato tutta la vita a fare questo. Nasce nel 29 a La Ciotat vedete tra Marsiglia e Tolone sul mare in un posto molto bello. Si iscrive e frequenta un circolo fotografico Ancora non sa quello che lo aspetta, ma si butta in questa avventura fotografica. Vince un concorso del loro circolo e il premio, cosa secondo me splendida,  constava in una partecipazione al festival della fotografia di Arles, un seminario. E qui siamo negli anni 90 non è che sia poi tano tempo fa, lui eccolo qua di nuovo ha la trasformazione, la folgorazione.  Con questo workshop viene introdotto all’arte del fotomontaggio, nel senso di ritagliare delle foto, rifotografarle e sperimentare questo metodo. Da qui comincia a costruire quella che diventerà poi anche la sua fortuna e la sua popolarità. Diventa poi un fenomeno a livello mondiale molto importante . Volevo darvi un poco di segnali per farvi capire chi è lui e poi vedremo come fotografa e che cosa fa. Avete presente monsieur Hulot che era interpretato da Jacques Tati nei suoi film, ecco un po’ quel personaggio che lui ricrea e inventa, indossa sempre un impermeabile , molto naif, molto surreale, molto impacciato, molto spaesato soprattutto. Ecco lui prende queste  caratteristiche e le sposta nel mondo della fotografia. Sono foto di solitudine, di infinito, di vuoti, surreali. 

La prima foto che ho visto e ho scoperto è bellissima.  C’è lui al centro di un bersaglio che tira frecce verso l’alto e le altre frecce sono tutte piantate in terra. Quest’arco è un suicidio lancia le frecce in alto e lui è al centro del bersaglio,  già altre frecce sono ben piantate già lanciate giù. 

Un’altra è intitolata “il mulino dell’oblio” un’allegoria sulla vita, una condanna. Qui è presente una delle sue caratteristiche: il mondo che è impossibile da vivere, ci parla di questa fatica pazzesca, di questa impossibilità, dell’ogni sforzo vano. Però nel medesimo tempo angoscia e tenerezza convivono, questo piccolo uomo ci commuove è cosciente. Un uomo inutile.

Oppure sii presenta come buono a nulla dice il titolo, good for nothing, con questa scopa è lì che sta aspettando qualche cosa, la realtà è che questa scopa grava su di lui ignaro e tra poco lo spazzerà via. Tuttavia lo fa con una semplicità estrema con un ‘ingenuità con una leggerezza anche se la situazione è molto pesante, rasenta il clownesco, di sicuro rideremo quando volerà fuori dall’inquadratura.

Questa è un’altra tra le foto veramente splendide. Questo telo che non si capisce se sta sollevando, se sta tirando, se nasconde o rivela se riesce a scoprire. Questa ambivalenza mi piace tantissimo. “Oltre la superficie delle cose” è il titolo.

Ora una foto di quelle più conosciute e famose Il signor G. quest’uomo che vola. E’ un surreale tardivo, che arriva qualche decennio dopo, lo vedete e lo capite, però si ispira anche tantissimo a quella corrente artistica.  Qui lo vedete, a me viene in mente Paul Klee. Una ricerca geometrica. La geometria coniugale. A un certo punto coinvolge la moglie in queste fotografie. Questo quadro che è vuoto e sotto di lui c’è un vuoto infinito, è uno spettacolo del nulla, visionario e onirico, la vertigine che attira. Lui che guarda dentro, come un uomo che assiste a dei lavori in strada. Una delle sue particolarità è proprio quella di essere una persona che si inventa una realtà parallela , una persona che si inventa un altro universo.

E qua incominciate forse a capire quello che lui fa e come lo fa, è la cosa più interessante, e la cosa più incredibile è il modo in cui realizza queste opere e adesso ve lo svelo con questo filmato. Lui si fotografava, poi stampava le fotografie, le ritagliava e le inseriva in un teatrino, in un set cinematografico, in una realtà che si era inventato, costruita con dei piccoli oggetti , questi sono dei cordini, oppure con del materiale recupero e sempre c’era questa sabbia e questa spiaggia anche perchè abitando da quelle parti era molto spinto e innamorato era il paesaggio che conosceva. Ci racconta la foto del palloncino, C’è un fondale che è la fotografia di un cielo. Poi davanti un mucchietto di terra su cui è infilata la sua  fotografia che è costruita con un altra fotografia e non ci sono tantissime parole se non proprio sentire questo peso di qualcosa che lo incatena alla terra e non gli permette di volare come vorrebbe lui, saltare via, vorrebbe andare altrove. E’ un Sisifo impotente e perplesso così forse la pietra non rotola più. Si sente nelle sue foto Albert Camus quando ci racconta che l’uomo nella sua condanna diviene consapevole dei proprii limiti, cerca la gioia dentro questa terribile prigione.

Il tema del volo, il tema di Icaro è presentissimo nelle sue foto. Chiudiamo con quest’ultima che è la foto di chiusura della sua vita, mi sembra no? Con questo nero sta cancellando quella che è la sua passione, tutto il suo mondo quello che si è creato e tutto sta per diventare tutto nero, diciamo che è la sua foto d’addio, mi piace pensarla così.

 E adesso restiamo sempre in Francia e spostiamoci con un salto.

Francia n. 3 Vivian Maier.

 Le mie ricerche fotografiche legate a Vivian Maier. Les Hautes Alpes sono qui vicine all’italia confinano praticamente col Piemonte, sull’altro lato. Si passa il Monginevro e questa è la zona di Vivian Maier.ad est di Gap.  Qui possiamo vedere dei paesaggi che sono stati la cosa che più mi ha incantato. Vivian Maier si trasferisce con la madre quando ha 5 anni e passa tutto il periodo delle elementari. Vengono dall’America dal Bronx.  Questi paesaggi se li porterà sempre nel cuore. Questo potrebbe essere un diorama, difatti nello spettacolo che ho allestito insieme a Caterina Cavallari a volte Vivian è in ombra, sapete lei amava tantissimo fotografarsi in ombra e  ogni tanto compare la sua ombra ed entra dentro queste fotografie, su questa panchina si siede e questi sono i prati che Vivian aveva negli occhi. Questo è proprio veramente il prato che aveva di fronte alla casa di suo cugino dove erano ospitate. Vedete che respiro. Spesso lei veniva qui. Negli anni 50 ritorna in Francia e scatta le sue prime foto.  Qui ci veniva con la bicicletta. Questa chiesa di cui vi parlerò in una prossima diretta, delle sue statue che sono molto particolari. Questo invece è il retro della casa. Foto tratte dal mio libro “L’autre Vivian”, fotografie  di quando ci sono stato la prima volta, c’era un vento incredibile e questo era quello che Vivian Maier vedeva dai cinque ai dodici anni. Questa è la sua casa, questa è la casa di Vivian e qui infatti faccio uso di una sorta di diorama, di una specie di teatrino di ombre cinesi e lei compare sul portone di questa casa e ci racconta delle sue paure.

Francia n. 4 Le buone traduzioni.

Per salutarvi vorrei chiosare su un discorso sula luce e sulla fotografia un poco per chiudere il cerchio di quest’oggi perchè tutti lo sappiamo e lo dicevo all’inizio la prima foto nasce in Francia. Ora vorrei farvi un pezzettino dello spettacolo “Fotografie da appartamento” che faccio in diretta su Zoom, è una diretta in cui suono racconto e vi faccio vedere le fotograie che ho scattato durante la prima quarantena 

La fotografia dicono voglia dire scrivere con la luce.

E’ come se prendessi una cosa che non posso prendere e la passassi su di una superficie per lasciarci una traccia.

A me non piace; mi piacciono di più i francesi che l’hanno inventata un poco loro, la fotografia e dicono “luce che scrive”.

Prima c’è la luce.  

Poi la scrittura, che potrebbe anche non esserci, la scrittura. La luce è lì, colpisce una persona pure o un oggetto. Una collina. La luce invade una parte dell’oggetto, che diventa soggetto, gli mette un accento o gli toglie qualcosa, e tutto si riflette. E questo riflesso di luce viaggia fino ad arrivare all’obbiettivo. Lo attraversa. E Subito dopo entra in un luogo completamente buio. Lì si raccoglie una parte di mondo e, dentro a quel buio, si posa su di una superficie. E’ LA LUCE che scrive sulla pellicola, o su un sensore. E’ QUANTA decido di farne entrare. E’ QUELLO che decido che entri. Prima la luce, poi la scrittura. La luce è la materia prima. La scrittura il mio intelletto.

Questo è quello che mi affascina di più dei francesi. Direi che questo viaggio in Francia finisce qui. Non abbiamo speso tanto, allora possiamo dire che ne è valsa la pena. Se questa piccola produzione indipendente ti ha soddisfatto allora puoi sostenere la mia attività mettendo un sonoro ed entusiastico  mi piace. Se il tuo grado di soddisfazione ti avvicina alle stelle ed hai paura di perderti i prossimi video allora iscriviti al mio canale. Più diventa grande, più verrà conosciuto e contribuirai ad una buona diffusione di un modo diverso e di buon livello della cultura e della sua diffusione sulla rete. Se vorrai effettuare una donazione la potrai inviare al mio conto PayPal robbianda@me.com grazie alla quale aiuterai a migliorare la tecnica di questo canale, sto pensando ad un Green screen per le dirette. Grazie ancora e alla prossima.

Arrivederci a tutti.

Bianchi

Il bianco in fotografia. 5 legami. Tutti i bianchi della fotografia. Cinque argomenti legati tra loro da 5 piccoli legami, ognuno chiama l’altro e lo spinge un poco più in là.

Tutti i bianchi della fotografia. Facebook mi ricorda di un avvenimento di 6 anni fa. Parto da qui e mi lascio portare per parlarvi di 5 argomenti legati tra loro da piccoli legami. Ognuno chiama l’altro e lo spinge poco più in là. Dei cortocircuiti che li mettono in contatto. E questo ci porta ad un colore che ci guiderá in  questa sera.

Non si tratta di un fil rouge ma bensì di un fil “blanc”. Il bianco ci guiderà nei pensieri e nelle foto di questo incontro.

Bianco n.1

E vi racconto perchè. L’avvenimento a cui mi riferivo è la mia prima mostra in via Cavour ad Arezzo. Si intitolava PAESAGGI PARZIALI ed era situata allo studio MILK. Milk è il latte, e il latte è di colore bianco. Partiamo da qui.

Ed entriamoci in questo colore.  Erano le foto di un viaggio in America. Scattai tantissime foto e mi proposero di esporle in questo studio che per l’occasione si trasformava in galleria. L’immagine di presentazione la intotolai “Hypnosis and Reflections”. Arriviamo in hotel e dalla finestra il primo paesaggio che vedo è un palazzo grande con le sue finestre che si ripetono fino all’ossessione.  Ogni finestra una vita, una storia. E il sole che radente evidenzia ogni mattone, ogni fregio. Lì di fronte c’è il mondo condensato. È un condensato di vite ai margini. Prostitute, spacciatori, vite al limite.

Paesaggi parziali perché?

Questa la cartolina di presentazione. La presentazione diceva così: “paesaggi visti da un turista: assimilo tutto come un paesaggio che si schiude ai miei occhi senza intenzionalità, che ti capita davanti, non lo scegli e non cerchi niente, ti imbambola, riflette ed ipnotizza, si moltiplica. Trovi sempre dei buchi, delle crepe, delle finestre attraverso cui guardare e al di là delle quali senti che si apre un mondo in cui da turista non puoi che definire parziale”. Le prime foto che accolgono i vistatori della mostra all’ingresso raccontano dell’inizio del viaggio: Capisci che l’America è un’altra cosa quando ti svegli nel cuore della notte e vedi dal finestrino ghiacci che non hai mai visto. Immensi e galleggianti.  Ti dicono che stai andando lontano.  Da un’altra parte. Spazi aperti e sconfinati ti aspettano ed esistono. Arrivi. Lo sai e lo senti che sei controllato, schedato, l’immigration ti fa sentire in quarantena anche se dura mezzora, ammassato, controllato, schedato . La storia dei nonni che si ripete, e che silenziosamente ripeti. Lasci le impronte, cedi l’iride,  la proprietà del tuo corpo è momentaneamente loro.  Sanno chi sei senza sapere chi sei. E questo peró ti fa sentire libero. Ma nel medesimo tempo senti che potrai essere quello che sarai: un avventura possibile. Una sensazione rara.

San Francisco.

Splendida, libera, una città del possibile. Una giostra, le montagne russe, un continuo saliscendi. E ogni tanto uno spicchio di Italia. La nebbia arriva in due secondi. Bianca anche lei. Il golden Gate Bridge. Ma dal lato B. Un lato insolito.  In basso il brulichio di un cantiere. Il backstage di una attrazione. E poi Alcatraz, visita obbligata.  Li senti ancora quella ciurma di detenuti.  Al dilà, un’isola nell’isola. E un vetro non basta. Anche se il buco è dimensionato per la canna di un fucile in caso di rivolte. Poi alla Death Valley alla volta di Las Vegas. Qui i paesaggi non sono più tanto parziali ma infiniti.

Una sosta a Dante’s Peak nella Death Valley.

E scatto questa foto. Forse tutti sapete che il legame tra la Banda Osiris di cui sono il fondatore e Caterpillar di RadioDue è strettissimo, nostra è la sigla. Allora questa foto era perfetta. La invio alla redazione, piace.  Tutti gli anni c’è il caterraduno una festa, un incontro tra il pubblico e i conduttori. Un’idea geniale. Il giorno della chiusura c’è l’asta benefica per Libera di Don Ciotti. Prendo il coraggio e decido di offrirla. Insomma finisce che la foto viene battuta a novecento euro.  La mia prima foto resa pubblica. Novecento euro. Un valore gigantesco. Neanche Bollani che offre una chiavetta con tutte le sue registrazioni raggiunge una cifra simile. Lì ho capito a cosa serve una fotografia: è qualcosa di UTILE.

Ma ritorniamo alla Mostra e andiamo alla fotografia che amo di più e che è quella che ci permette di fare il primo salto.

Bianco n. 2 MILK.  Milk il luogo della mostra. Milk un locale di Castro, San Francisco. Milk. Harvey Milk. Adesso vi racconto. Siamo nel quartiere Castro. Il piû libertario. Entriamo nel bar, il bar a lui dedicato.  Giustamente prima di prendere una birrà mi chiedono i documenti. Questo è uno degli aspetti che mi piace dell’America. C’è una legge e si applica senza distinzioni. Anche se sei in una zona franca. Tutti uguali. Tutto chiaro. Sempre. Sandra si siede per tenere un tavolo. E la foto si crea da sola. Harvey Milk (1930-1978) consigliere comunale assassinato insieme al sindaco Moscone da Dan White un consigliere indignato per lo strenuo e persuasivo impegno di Milk contro la Proposition 6, la legge che avrebbe permesso il libero licenziamento degli insegnanti dichiaratamente omosessuali. Milk aveva aperto un negozio di fotografia nel quartiere di Castro a San Francisco. Fin dal suo arrivo a San Francisco si impegna per ottenere diritti per la comunità gay. Nel 77 viene eletto come consigliere comunale affermandosì così come il primo omosessuale dichiarato ad ottenere un ruolo politico rappresentativo. Nonostante San Francisco fosse a suo modo più aperta e inclusiva di molte altre città e aree del paese, la sua elezione risulta essere comunque uno spartiacque nel contesto generalmente più ostile e ancora arretrato nei confronti degli omosessuali. Dopo l’assassinio si arriva al giorno della sentenza molto blanda che indigna la comunità di Castro e spontaneamente si crea un corteo in sua memoria, a lume di candela e decorato dalle bandiere arcobaleno –simbolo del movimento omosessuale – nato in conseguenza di questi eventi,  “sottolineò il legame tra MILK e la sua comunità, tra le prime ad aver abbattuto il muro di silenzio e soggezione che divideva una parte sociale da un’altra, i diritti di serie A da altri di serie B,  gli individui dagli altri individui.  Ancora oggi, la figura di Harvey Milk (negli Stati Uniti, ma non solo. In Europa anche) rappresenta la determinazione di un uomo, di più uomini, nell’affermare il proprio orgoglio di parlare,  di partecipare,  di esserci e, prima di tutto, di essere.”

Ora creiamo un altro legame, un secondo cortociuito legato al bianco.

Bianco n. 3 Neve

Bianco della nebbia di San Francisco, bianco metereologico, bianco della neve. Come sapete ho creato uno spettacolo on line fatto di musica, racconto, cinema d’animazione e fotografie che ho scattato durante il periodo della quarantena. Si intitiola “Fotografie da appartamento” e lo presento sabato prossimo alle ore 21.00 in diretta e dal vivo su Zoom. C’è un capitolo legato al fuori, all’aperto,  alla vista che abbiamo dal terrazzo che dà sull’anfiteatro e ve lo vorrei proporre, un piccolo assaggio. Ha nevicato quando era quasi primavera. Eccolo qua. Il silenzio è stato il regalo più bello di questo tempo. Stupefacente la prima sera e poi la seconda e per due mesi, ogni volta così. Le foglie mosse dal vento, piccoli rumori impercettibili gentili compagni delle notti di luna.  Un lato dell’appartamento è verso una strada del centro: il lato urbano. E l’altro è quello più naturale grazie al parco dell’anfiteatro.  Da sempre in conflitto, inconciliabili.  Grazie ad un piccolo virus l’urbano e il naturale sono stati uniti dal silenzio. E la neve sancisce questa unione.  E’ inutile che vi dica che le città andrebbero ripensate.  Per almeno un mese mi sono detto che forse si poteva ripensare il mondo, le città, le abitudini, l’economia, il lavoro, la terra che ci ospita. E lo dice chi  si è conquistato il privilegio di vivere la vita che volevo. Abbastanza.  Poi tutto è tornato come una dissolvenza neanche tanto lenta verso la vecchia stupida, fottuta, noncurante, volgare  e violenta “normalità”. Ci vogliono tempi lunghi e tanta pazienza e virtù.

Bianco n. 4 il bianconiglio

Quarto CORTOCIRCUITO. Se si parla di Bianco allora si parla anche di Bianconiglio. Ho riletto Aiice nel periodo della quarantena. E oggi mi è tornato in mente un brano musicale.    WITHE RABBIT dei Jefferson Airplane.  Un omaggio a Lewis Carrol e alla libertà. una canzone con un testo visionario, da LSD. Vi leggo la traduzione. Una pillola ti fa diventare più grande,  e una pillola ti rimpicciolisce E quelle che ti dà tua madre,  non servono a niente. Prova a chiederlo ad Alice,  quando è alta tre metri. E se tu vai a caccia di conigli,  e ti accorgi che stai per cadere dì loro che un bruco che fuma il narghilè  ti ha mandato a chiamare. E chiama Alice,  quando è proprio piccola. Quando gli uomini sulla scacchiera si alzano e ti dicono dove devi andare. E tu hai appena preso qualche specie di fungo, e la tua mente sta affondando. Prova a chiedere ad Alice, penso che lei saprà la risposta. Quando la logica e le proporzioni delle cose sono cadute morte al suolo. E il cavaliere bianco sta parlando all’incontrario E la regina di cuori ha perso la sua testa Ricorda quello che aveva detto il ghiro: Alimenta la tua mente, alimenta la tua mente

Composta da Grace Slick

White Rabbit racconta la storia di Alice che diventa altissima – espande la mente – e più piccola – senza potere – e che immagina e incontra ogni sorta di creature magiche. Naturalmente – come accadde a Lucy in the Sky with Diamonds dei Beatles – la canzone fu interpretata come la descrizione di un “viaggio” sotto LSD, con ovvi riferimenti a pillole e funghi allucinogeni. Ma la canzone può anche essere vista come una allegoria della generazione persa dei giovani americani durante la guerra del Vietnam. Alcuni andarono a “cacciare conigli”, altri decisero di seguire il richiamo del “bruco che fuma il narghilè” e protestarono, disertarono, bruciarono le cartoline di leva. Questa canzone fu un grido di battaglia della controcultura che tanto fece contro la guerra.” White Rabbit” è un appello a risvegliarsi, che infatti venne accolto.White Rabbit è una canzone di libertà, una chiamata alla mobilitazione per superare l’ordine patriarcale del tempo, per fare ingresso nel mondo della creatività e della conoscenza. Il messaggio finale, nelle parole del Ghiro, è “alimenta la tua mente”, acquisisci consapevolezza.

Bianco n.5 Vivian Maier

Quinto cortocircuito. Che ci lega al Bianconiglio c’è una foto, molto bella scattata da Vivian Maier.  Una foto di conigli bianchi su di un balcone. Vivian Maier aveva occhi dappertutto. E questa foto non se la lascia proprio sfuggire. Che fa partire una serie legata al bianco e alla neve. Ecco queso era il mio Bianco, tutto quello che ci avrebbe potuto abbacinare, quello che ci avrebbe obbligato a mettere gli occhiali da sole. I bianchi a volte in fotografia sono i bruciati, quello che ci obbliga ad eliminare una foto, che c ifa dire mannaggia se stavo più attento: la troppa luce. Invece si sono limitati, la abbiamo controllata l’eccedenza di luce. E ci siamo fatti accompagnare da loro.

 

Vivian Maier, l’altra

Vivian Maier, l’altra. Un tesoro con cui si fanno i viaggi nel tempo. Lei è un esempio della forza della fotografia.

Lei sa entrare in contatto, non cerca mai lo scandalo fine a se stesso, ci dice qui c’è il mondo, così va. Scatta e va via. Lei la fotografa di strada. La fotografa nella strada.

Vivian Maier è un tesoro che si svela ai nostri occhi, una ricchezza che ci viene donata.

Un salto nel tempo. Una fortuna ridare una vita a momenti di quaranta, cinquanta, sessanta, sett’antanni fa.

Possiamo vedere che la forza di una fotografia arriva ancora a noi, quasi non ci accorgiamo che i vestiti, le auto, le acconciature sono di sessant’anni fa. Quello che ci arriva è l’attenzione verso le persone, il catturare la loro essenza di povero, blaguer, poliziotto di donna imbellettata o operaia in difficoltà. Sono attuali e puntano all’essenza, sono degli archetipi ancora validi.

Vivian Maier sa smascherare con sapienza. Sa entrare in contatto, non cerca mai lo scandalo fine a se stesso, ci dice qui c’è il mondo, così va. 

E guardare le sue foto è come stare in un film, di quelli belli, forti, che ti prendono.

C’è un fotogramma che ci arriva, e il più delle volte, anzi sempre, (le sue foto non erano dieci, venti allo stesso soggetto ma una e una sola) sempre ci racconta tutto. Ma ci racconta con un prima e un dopo. Prendetene una caso delle sue foto. E ci renderemo conto che scattano domande, dopo poco. Chi era quella persona, perché si è fatta fotografare? Veramente da dove veniva, perché era lì. A che cosa stava pensando mentre Vivian Maier le scattava quella foto? Era felice, triste? E’ come se ci fosse già un dialogo nelle sue foto, come appunti di un discorso. Queste due donne si sono agghindate, una ha aspettato l’altra, poi sono uscite, per andare dove, a un incontro benefico? A fare shopping, al cinema? E tu sei lì con loro, sei in quei marciapiedi, affacciato a quelle finestre, tu passeggi e ammiri quella diversità estrema e contemporanea.

Possiamo vedere che la forza di una fotografia arriva ancora a noi, nonostante si sia sempre nascosta, abbia celato le sue foto. Su di lei è stato costruito un mito, senza badare a leggerezze, trucchi per renderla un fenomeno tralasciando di considerarla come una fotografa, una donna. Bisognerebbe catalogare le sue foto, fin dall’inizio disperse senza criterio, e darle il riconoscimento di un’opera di una grande donna con una sensibilità elevatissima. In questo video cerchiamo di liberare la persona dal personaggio, un piccolo tassello per permettere di essere considerata pienamente una fotografa. Come poco alla vota sta succedendo. Precisazioni e una visione un poco diversa di lei.

Dopo quattro anni di tournée che hanno portato “Gli occhi di Vivian Maier – I’m a camera” nei teatri italiani, francesi e svizzeri, un libro, due installazioni con le sue foto originali, sempre in collaborazione Caterina Cavallari, un nuovo video per spingere avanti il suo valore.

Visita il canale YouTube cliccando qui, ci sono moltissimi video dove unisco musica, parole, fotografie e cinema d’animazione. Un luogo dove scambiare opinioni e visioni, per far crescere con valore l’utilizzo della rete e dei social.

Scarabocchi

Un manuale per migliorare le fotografie e uscire dagli schemi quindi gli scarabocchi per quando la fotografia non basta più. Vi parlo di gente che pasticcia le foto, lascia dei segni, le altera, insomma persone che le foto da sole non gli bastano più. E vuole dare più potere ai suoi scatti. Chi ci scrive sopra. Chi le commenta. Chi le deforma. E’ un bene la contaminazione? Aiuta, aumenta il significato? Dallo scrivere, annotare i luoghi, le date sul retro delle fotografie fino a farle commentare dai diretti soggetti, alterare le prospettive, intervenire sui profili, renderli liquefatti. Racconto di 5 fotografi che ci parlano di questo. Bisogna sempre avere il coraggio di sconvolgere, deturpare, modificare, aggiungere, specificare. Le fotografie sono un poco come i sentimenti, ci vuole coraggio per prenderne le distanze.